Recupero, ecco il segreto per migliorare

Recupero, ecco il segreto per migliorare

Foto Sergio Tempera

Più allenamento, maggior rendimento”. Questo è il motto a cui si ispira la maggior parte dei runner competitivi, di tutte le età e di tutte le cilindrate. Funziona? Solo fino a un certo punto.
Ogni allenamento che effettuiamo, affinché ci procuri dei benefici è necessario che sia “assorbito” dal nostro organismo, la cui capacità di recupero dopo uno sforzo non è illimitata. Se lo sforzo dell’allenamento supera la capacità del nostro organismo di assorbire la fatica e recuperare energie, non otterremo miglioramenti nelle nostre prestazioni, ma, al contrario, andremo incontro a un peggioramento. Da questo punto di vista l’allenamento può essere eccessivo per l’intensità della seduta (abbiamo corso troppo forte) o per la durata della seduta (abbiamo corso troppo a lungo) o per l’eccessivo numero di lavori svolti nella settimana.

Questo rischio è maggiore nei runner che si allenano poco. Se l’allenamento che abbiamo effettuato è superiore alle nostre capacità di quel momento, il riequilibrio del livello fisiologico richiederà molto più tempo.
L’allenamento è la via per migliorare l’efficienza fisica e quindi le prestazioni. Ogni podista, con variabili molto soggettive, cerca l’aumento della propria capacità fisica vuoi per correre più velocemente, o per durare di più, o anche semplicemente per sostenere lo sforzo senza … morire di fatica e tagliare così il traguardo con il sorriso sulle labbra.

L’affermazione più allenamento, maggior rendimento, ha una logica lineare valida fino a quando non si supera la capacità di recupero dell’organismo, entrando in un ambito in cui gli sforzi non portano ad un miglioramento ma ad un peggioramento. Un podista amatore in pratica mai si spinge alla soglia delle “colonne d’Ercole”, anche se spesso pensa di esserci arrivato. La fatica che si genera dalle sedute che svolge non è dovuta al grado di allenamento, bensì al ridotto livello di efficienza.

Mi spiego meglio: un maratoneta che percorre 40 km la settimana e sostiene una seduta di 40 km, svolge in una sola occasione uno sforzo pari al 100% del proprio carico settimanale. E’ quindi comprensibile quanto sia elevato lo sforzo e quali le conseguenze muscolari che ne derivano. Per un maratoneta che percorre 80 km la settimana, la seduta di quaranta non è così spacca gambe: il rapporto si dimezza (prima era 1:1, in questo caso è 1:2). Un corridore che in otto giorni totalizza invece 120 km, avverte con minori conseguenze e disagi l’impegno di percorrere 40 km tutto d’un fiato. L’investimento su questa distanza vale un terzo del totale del proprio patrimonio chilometrico (rapporto 1:3).

E’ quindi evidente, a fare più fatica, e soffrire maggiormente, sono sempre i soggetti meno allenati. E non si tratta solo dei “disagi” avvertiti nel corso dell’impegno: quanto speso in termini di stress si espande nel corso delle giornate che seguono. Riferendosi ai danni che un allenamento impegnativo determina, il riequilibrio del livello fisiologico richiede molto più tempo per i meno preparati.

Se l’indirizzo tecnico a cui dirigersi per garantirsi il miglioramento delle prestazioni fosse solo l’aumento del carico, si tratterebbe semplicemente di percorrere più chilometri. Senza dubbio questa è in ogni caso la prima scelta da adottare. Sostenere allenamenti più lunghi aumenta il patrimonio aerobico. Non è quindi una ricchezza che nasce dalla “vittoria alla lotteria” (leggi un “lungo” fatto ogni tanto), ma è un capitale fatto di lavoro e dedizione.

Perché non si riesce ad applicare questa regola “benedettina”? Troppe le tentazioni delle corse domenicali che portano a disperdere le occasioni di allenamento. I podisti in genere non si allenano ma corrono, trascurando quindi la programmazione. Senza un’organizzazione degli allenamenti non si prepara il terreno delle prestazioni, ed anche un bambino comprende che senza seminare non si raccoglie, salvo che non ci si accontenti delle erbacce.

L’humus podistico è la corsa lenta, e si sa che quando si corre piano si deve durare. Dopo tutto nessuno semina oggi per raccogliere domani. Gli effetti fisiologici del lavoro aerobico sono davvero indispensabili per ottimizzare le prestazioni.

Correndo piano si verifica:

  • aumento del volume del cuore, che ad ogni contrazione spinge così più sangue verso i muscoli,
  • aumento della rete di capillari, piccolissimi vasi sanguigni che portano sangue alle fibre muscolari,
  • aumento del numero di mitocondri, le centraline energetiche del lavoro aerobico, nei muscoli,
  • aumento degli enzimi aerobici, che rendono più efficiente il metabolismo energetico aerobico,
  • miglioramento nell’efficienza metabolica: le fibre muscolari migliorano l’utilizzo degli acidi grassi come fonte energetica a favore così di un risparmio dei carboidrati.
  • A questo punto non si dovrebbe esitare nel percorrere più chilometri, perché si deduce facilmente che ogni sforzo viene tollerato dal corpo con maggior efficacia ed il recupero si accorcia.

Ma quando si possono percorrere parecchi chilometri se non nel fine settimana, visto che le giornate infrasettimanali sembrano non poter contenere tutto ciò che vorremmo fare? Allenamento e gare sulla bilancia della programmazione non trovano equilibrio, seppur c’è chi i pesi cerca di livellarli ingegnandosi con alterati stratagemmi. Venti chilometri a passo aerobico non possono essere sostituti con una corsa di mezza maratona. Gareggiando per 21 km non si vanno a toccare i tasti dei meccanismi elencati qualche riga sopra, ma si allena un diverso sistema fisiologico.

In definitiva, per qualche settimana l’anno si dovrebbe essere atleti, e solo in seguito corridori. Questo significa riservare dapprima energie all’allenamento, e poi alle gare.

 

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