È un po’ come per le macchine di grossa cilindrata: se vengono fatte circolare solo in città a 30 chilometri all’ora tendono a ingolfarsi e il motore non riesce a esprimere le sue potenzialità, fino a essere utilizzato male. È un po’ così anche per chi corre. Mutare troppo il gesto tecnico, rallentandolo eccessivamente, può avere effetti negativi.
Correre piano è un’idea relativa a quanto è per noi il veloce, ma è certo che più si abbassa la velocità di crociera, tanto più si allunga il tempo di appoggio del piede sul terreno. Il prolungarsi oltremodo di tale tempo comporta un’esaltazione degli eventuali difetti biomeccanici del piede stesso e quindi tutta una serie di stress, talvolta mal sopportati.
L’utilità dell’andare piano è legata alla possibilità di correre più a lungo, e quindi a un dispendio energetico minore, però bisogna sempre chiedersi se tale necessità allenante non è almeno parzialmente sostituibile con andature a velocità variabile, o comunque con un ritmo non eccessivamente lento.
Nei programmi di allenamento il cosiddetto lungo lento può rappresentare un passaggio obbligato in vista di una preparazione per la maratona. Uno dei sistemi migliori per evitare danni è optare per un percorso che invita naturalmente a dei cambi di ritmo, al fine di rompere uno schema motorio spesso foriero di effetti negativi.
Su Correre di maggio il nostro specialista Luca De Ponti elenca e spiega i più comuni effetti negativi e le potenziali patologie causate dall’alterazione biomeccanica del gesto atletico, come ad esempio la sindrome della bendelletta ileo-tibiale, l’infiammazione del tibiale posteriore, la periostite della tibia, le fasciti plantari.