Mi sono avvicinato al libro di Adharanand Finn L’arte giapponese di correre con una certa riluttanza. I giapponesi mi hanno sempre fatto un po’ paura. Una società perfetta dove sembra annullarsi ogni conflitto nell’ideale di un bene comune, in un sistema produttivo e sereno e a costo di un’omologazione claustrofobica, mi mette a disagio. Ma certo è un problema mio. Ho visto i video dei giapponesi tirati nel viso che arrivano a branchi nelle mezze maratone con tempi che in Europa varrebbero titoli nazionali e che là fanno naufragare a fatica nei primi 100. Hanno anche i loro stacanovisti delle maratone e delle ultra. Non vorrebbero avversari davanti, resistere, resistere sempre, non farsi sorpassare, a costo di stramazzare a terra, questa la loro tattica. Sofferenza. Sempre. Allenamenti infernali agli ordini di allenatori dalle teorie non sempre scientifiche. A renderli così sofferenti è in realtà lo sforzo immane di correre con piccole falcate frequenti, una tecnica redditizia ma piuttosto innaturale.
Quell’ossessione per le gare lunghe
Ero convinto che L’arte giapponese di correre fosse una tediosa celebrazione del metodo giapponese, che ha davvero prodotto un numero incredibile di atleti di livello medio alto nella maratone e nelle mezze. Ricordiamoci però che il record nazionale giapponese dei 1.500 m si attesta attorno un mediocre 3’37”. In pratica fin dalle scuole superiori quasi ti impediscono di correre le distanze più brevi in pista, ossessionati come sono dalle gare lunghe e dalle staffette, tipo l’Ekiden, per cui vanno pazzi. Queste ultime mettono in scena la forza del gruppo, l’individuo con la sua prestazione si integra nella squadra e ne determina il risultato. Le gare in pista non scaldano il cuore degli appassionati e delle televisioni.
In Kenya a riposare
Finn è un giornalista inglese, discreto runner da 35′ nei 10.000 m e maratoneta sotto le 3 ore. Dopo aver visionato i camp kenioti e averli raccontati nel volume Nati per correre, in questo volume ha deciso di indagare il Giappone per cercare di capirne i segreti. L’arte giapponese di correre ha un approccio molto laico, privo di preconcetti negativi. Ma a pagina 91 leggo una frase che è quasi un colpo di scena: “Finora ho tentato di scoprire perché i giapponesi siano così bravi nella corsa, ma forse mi sarei dovuto domandare perché non sono più bravi degli etiopi o dei keniani”. Ovvero, come mai con una base così ampia faticano a trovare atleti di livello? Ci arriva dopo avere parlato, appunto, con un atleta keniota che svolge la sua attività perlopiù in Giappone e che prima di una gara importante torna in Kenya almeno due settimane. A finalizzare la preparazione? No. A riposarsi, dopo allenamenti ritenuti da lui sfibranti.
Solo con inaudita fatica
L’idea di fondo che pervade la cultura nipponica, in senso lato, è che il successo si raggiunga solo al termine di sforzi inauditi. E questa teoria non ha basi scientifiche. Spesso chi si allena troppo ha infortuni, o non continua la progressione nei risultati. Forse la Storia mi smentirà e il prossimo Mo Farah sarà nipponico. L’arte giapponese di correre va assolutamente letto. Una volta però che ci si è fatti un’idea dell’aziendalismo podistico nipponico, che a molti piacerà, vi consiglio di leggervi o rileggervi anche La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe. Per volare a un’idea di corsa votata alla libertà e alla sana ribellione.