Oggi parlare di talento è molto di moda, sia nel mondo sportivo sia in quello delle aziende. Qualsiasi prestazione di eccellenza, sportiva e non, viene ricondotta a questo termine, che però è usato in maniera fuorviante, cioè con il significato di capacità innata. Quindi l’eccellenza viene ricondotta a una sorta di processo magico, il fatto di essere “nati così”.
In questo modo ci siamo creati tutti un alibi: uno è un campione grazie alla genetica, un altro è un grande manager perché è nato così. Quindi, se io invece non sono altrettanto bravo, non è una mia responsabilità. Ma è falso. La predisposizione da sola non basta, è solo un requisito di partenza. Tutto il resto è impegno quotidiano, che produce anche oltre un migliaio di ore annue di allenamento. Senza quello non si va da nessuna parte.
Su questo tema si incentra la chiacchierata che Pietro Trabucchi conduce, su Correre di febbraio, insieme a Daniel Fontana, pluriolimpionico e vincitore di diversi Ironman.
«Mi alleno circa trenta ore settimanali, circa 1.500 ore all’anno – racconta Fontana – Per costruire un atleta olimpico ci vogliono dieci anni di lavoro. Io ho fatto il mio primo triathlon nel dicembre del 1992, ho mancato per un pelo Sydney 2000 e finalmente sono stato nella starting line di Atene e successivamente di Pechino».
«Nello sport di alta performance impegno vuole dire: “Dare tutto, il massimo, in ogni mossa, ogni giorno, sempre. Vivere in funzione di un obiettivo, 24 ore su 24. La vita di un atleta professionista è un continuo abbraccio al dolore, pieno di frustrazioni e precarietà; tutto nella rincorsa della realizzazione di una performance straordinaria».