È un’esperienza abituale quella di pensare: “Quando ho uno scopo in mente riesco ad allenarmi meglio”. Un obiettivo, in particolare se sotto forma di sfida, favorisce coinvolgimento, interesse, disciplina. La motivazione per correre si accende come un faro. È abbastanza raro, ad esempio, che qualcuno che corre per divertimento si metta a fare ogni settimana, con regolarità, le ripetute.
Un caso emblematico
È significativa in questo senso la situazione di un runner pignolo che corre da molto tempo allenandosi con meticolosità e gareggiando regolarmente nel mondo amatoriale.
Rendendosi conto di non essere più giovanissimo sceglie, circa un anno fa, di lasciare l’attività agonistica, pur continuando a correre per piacere. E qui iniziano i problemi, perché il tutto comincia a non piacergli più. Ha deciso di fare solo dei lenti (delle sgambate quotidiane, come le chiama lui), ma è oppresso da “sensazioni sgradevoli di pesantezza” agli arti inferiori. Queste, a mio parere, in parte sono derivate dal cambiamento dei ritmi e dal conseguente aumento dei tempi di appoggio, ma posseggono anche un’evidente componente psicologica, che le intensifica.
Aiutato dall’umore basso, il soggetto finisce per vivere in modo un po’ ipocondriaco tali sensazioni, anche perché non ha altri stimoli su cui focalizzare l’attenzione durante la corsa.
Evidentemente questa persona necessita, per funzionare al meglio, di avere un po’ di sfida nella sua vita che alimenti la sua motivazione per correre. Prima, come si rendeva conto lui stesso, la quantità di competizione era a un livello eccessivo e incompatibile con la sua vita quotidiana; ma passando all’estremo opposto si trova in una condizione ancora più insoddisfacente.
Imprese positive e motivazione per correre
Ognuno di noi, come possiede un suo personale livello di soglia anaerobica, allo stesso modo ha in sé un livello ottimale di senso della sfida. È quello che gli studiosi chiamano eustress (stress positivo), che gli consente di funzionare al meglio fronteggiando i problemi, attivando tutte le sue capacità e rimanendo motivato e coinvolto. Le due alternative apatia e disinteresse da una parte e troppa pressione e tensione dall’altra.
Nel panorama sportivo attuale, specie in quello della corsa, sono sempre più popolari eventi che fanno leva su questo bisogno di mettersi alla prova, di sondare i propri limiti di individuare una motivazione per correre. Questo settore fa da contrappunto a quello classico dell’agonismo amatoriale, dove ufficialmente l’importante è ancora partecipare, ma in cui la principale chiave di lettura rimane il confronto con le prestazioni altrui.
Questi eventi vanno dagli ultratrail alle corse nel deserto, dalle 24 ore in pista alle prove in quota, ai circuiti di ultramaratone.
Qui, a parte una piccola élite di pochi eletti, per molti rimane motivante il farcela, l’arrivare, la sfida con se stessi. L’impresa diventa allora una formidabile spinta motivazionale. I problemi cominciano quando l’obiettivo diventa eccessivamente sfidante, ovvero velleitario, dove per velleitario si intende un traguardo il cui raggiungimento superi chiaramente le capacità presenti del soggetto. Ovvero a un’analisi realistica, del tutto irraggiungibile, almeno in tempi brevi.
Quando si perde la consapevolezza
Gli obiettivi velleitari si manifestano quando si perde il contatto con i propri limiti e danno luogo ad alcuni comportamenti tipici: il primo è quella che scherzosamente possiamo definire demotivazione da obiettivo irrealistico. Qui aspettative troppo elevate finiscono, paradossalmente, per demotivare il soggetto, che vive un piccolo dramma personale: proprio ora che dovrebbe darci dentro si sente svogliato, apatico, senza voglia di impegnarsi.
In questi casi la spiegazione è semplice: una parte di lui sa benissimo che l’obiettivo è irraggiungibile, quindi va in ansia e recalcitra di fronte alla prospettiva di un coinvolgimento reale. È come se l’inconscio sussurrasse: “andiamocene prima di fare brutte figure!”.
Un altro classico comportamento di fronte agli obiettivi velleitari è quello dell’eterno rimando.
Un mio conoscente, ad esempio, si era fissato con l’idea di partecipare a un ultratrail molto impegnativo. Ogni anno inviava all’organizzazione il modulo di iscrizione, comprensivo di tassa pagata. Poi, alcuni giorni prima della scadenza dei termini per ottenere un parziale rimborso della quota di iscrizione, decideva che neanche quell’anno avrebbe partecipato.
In questo caso è evidente come l’obiettivo, sentito come troppo sfidante, venisse rimandato in modo da mettersi al riparo dalla necessità di impegnarsi seriamente nel conseguirlo, come anche dal disastro di un confronto reale. In compenso questo comportamento apparentemente insensato forniva un vantaggio secondario al soggetto: gli consentiva, senza colpo ferire, di presentarsi per quasi un anno con un’immagine di sé socialmente desiderabile: “eh, questo weekend non posso venire. Sai, sto preparando l’ultratrail XY.”
È importante notare come questo meccanismo sia molto diverso dal sano rimandare, quando con lucidità ci si rende conto che le proprie risorse non sono ancora all’altezza di una certa sfida.
Con i piedi per terra, per non crollare
Quando le aspettative sono troppo elevate e il bagno di realtà le avvilisce, l’esito scontato è il crollo. Ci sono persone che partono decise nella preparazione di obiettivi sovradimensionati, senza curarsi dei segnali che invitano a considerare con obiettività i propri limiti. E finché il confronto con la realtà rimane fuori dalla porta, tutto sembra funzionare.
Ma quando la verifica avviene, si crolla. L’insuccesso, invece di trasformarsi in una spinta a ripartire facendo meglio (come succede se l’obiettivo viene scelto in modo saggio), provoca una resa totale e la perdita di ogni motivazione per correre. Qualcuno sviluppa lievi forme depressive. Come se quell’obiettivo sovradimensionato servisse non tanto a mettere alla prova le proprie capacità, quanto a realizzare un’immagine di sé onnipotente, per sconfiggere la depressione già in agguato.
Ben vengano dunque gli obiettivi sfidanti, ma attenzione alle trappole che portano con sé: per funzionare non devono essere velleitari e neanche campati per aria. Non si arriva dall’oggi al domani a certi exploit: bisogna che alle spalle ci siano dei traguardi più modesti e concreti.
Per fare scelte sagge occorre una grande consapevolezza della propria disponibilità a farsi carico di sacrifici. E infine bisogna anche fare una programmazione a lungo termine, il che presuppone avere senso della realtà ed essere sufficientemente umili, ovvero consapevoli dei propri limiti: umile viene da humus, cioè qualcosa che sta vicino alla terra. Perché per sognare bene occorre avere i piedi per terra.