Anni fa durante una relazione sulla biomeccanica motoria proiettai l’immagine di un velocista in curva. Il suo piede sinistro era molto ruotato in fuori e assumeva una proiezione “a lisca di pesce” rispetto alla direzione di corsa. La foto voleva far comprendere come gli effetti della corsa con i piedi verso l’esterno, assimilabili da un punto di vista biomeccanico a quelli di un eccesso di pronazione, potessero interferire con il funzionamento del tendine di Achille e della fascia plantare. Qualcuno osservò come nella storia dell’atletica nazionale ci fossero stati fior di campioni con questo difetto.
Un’affermazione vera, anzi, possiamo dire che se ne tragga anche qualche vantaggio, perché si velocizza il movimento di pronazione. Il problema sta nel grado di usura cui alcune strutture del piede vengono sottoposte. La cosa vale sia per la corsa a velocità elevata sia per le lunghe distanze.
L’appoggio del piede
Per comprendere le conseguenze nel tempo della corsa con i piedi verso l’esterno cerchiamo innanzitutto di capire come si articola l’appoggio. Il piede approccia il terreno in leggera inversione. Il primo impatto è solitamente con la parte esterna della calzatura: di qui il consumo del battistrada posteriormente e all’esterno, perché l’attrito è concentrato in un’area di battistrada limitata. In seguito si ha il movimento di pronazione con la rotazione del piede all’interno e l’allungamento del tibiale posteriore. A questa fase seguono lo stiramento e il caricamento della muscolatura del polpaccio, che proietta poi il corpo in avanti, accompagnato da un movimento del piede definito di supinazione. Abbiamo allora due movimenti, di pronazione e di supinazione, successivi l’uno all’altro e non in antitesi. A ritmi di corsa elevati viene spesso saltata la fase iniziale e si ha un appoggio diretto dell’avampiede, con tempi di pronazione molto più contenuti.