Pizzo What? Editoriale 1.0 – Le Olimpiadi in cortile degli anni '60

Pizzo What? Editoriale 1.0 – Le Olimpiadi in cortile degli anni '60

25 Luglio, 2016

■ NEL QUARTIERE dove ho trascorso i miei primi vent’anni ci sono cinquanta appartamenti, con al centro un ampio piazzale circondato da una strada asfaltata lunga centodieci metri, fulcro dei giochi dei tantissimi ragazzi che negli anni Sessanta vivevano lì. Il piazzale era perfetto per le partite di calcio, il gioco sportivo più praticato dal gruppo, ma quella non era l’unica attività che ci riempiva le giornate. Noi maschi avevamo creato anche una “banda” che qualche volta si scontrava con le altre del paese a colpi di sassate lanciate con la fionda. Come ci si allenava per giocare meglio a calcio, lo si faceva con impegno anche per sviluppare una buona mira. Ognuno di noi aveva anche un ramo ben lavorato, rigido e resistente, utile a ogni uso, e un arco con corde di nylon con cui si tiravano frecce in legno di nocciolo.

Erano state abolite invece quelle di metallo ricavate dai telai di ombrelli vecchi, perché andavano lontanissimo ed erano fuori controllo, ma soprattutto perché penetravano per svariati centimetri i bersagli rigidi che usavamo come oggetti di mira. La nostra attività offensiva non aveva però così uno sfogo adeguato e ci faceva sentire repressi. Ideammo quindi delle miniolimpiadi di quartiere, con gare spurie come il tiro a segno con la fionda per colpire bottiglie di vetro (rare), ma soprattutto barattoli, il tiro con l’arco (vinceva chi lanciava più lontano), il tiro della lancia (il bastone personale).

Non mancavano le prove di atletica, specialmente di corsa, sia di velocità sui 40 m (un lato della strada del quartiere) sia sui 110 m del giro del piazzale, oltre alle prove di resistenza sui dieci, venti e trenta giri. C’era anche una pseudo maratona, prova vinta da chi “mollava più tardi”, nella quale non era sufficiente resistere un metro in più del penultimo, perché quando questo si fermava andavano fatti almeno altri tre giri. Le corse di resistenza erano naturalmente le mie preferite. Di solito partivamo in una decina, la maggioranza dei ragazzi non partecipava perché le madri intimavano loro di non sudare; ma anche tra quelli che partivano, alcuni erano costretti al ritiro quando le rispettive mamme si affacciavano alla finestra e ci vedevano girare in tondo, paonazzi. Una volta il padre di uno dei miei amici arrivò in strada e, alla stregua di Cornelius Horan (l’irlandese che bloccò il brasiliano Vanderlei de Lima alla maratona di Atene 2004, nda) prese il figlio sotto braccio e lo fece desistere con un pesante scappellotto.

In quelle gare avevo un solo serio rivale, più giovane di me di quattro anni, che però non superò mai i trenta giri. Sono stato sempre il vincitore delle corse di resistenza delle miniolimpiadi del quartiere Alcide De Gasperi di Piovene Rocchette, provincia di Vicenza, l’unico a percorrere cin- quanta giri senza mai fermarsi. Vivevo quei successi come prestazioni rilevanti e sognavo di imitare Bikila, il campione indiscusso di quei tempi, ma il mio nomignolo non mi faceva onore: un ragazzo che ai giorni nostri corresse a lungo potrebbe essere soprannominato “il keniota”, allora io ero invece il “biafrano”. Sempre dell’Africa si trattava, ma ero chiamato così non per- ché non mangiassi, come gli sfortunatissimi abitanti di quell’angolo di Terra, ma perché ero molto magro, con costole, vertebre, clavicole e altre ossa ben visibili.

Non ero ben visto dai genitori dei miei amici che a volte mi chiedevano, con ironia, se mia madre mi preparasse mai una bistecca. In effetti mangiavo poca carne, il mio piatto preferito già allora era la pasta, che saziava di più ed era anche più buona. Mia mamma abita ancora al quartiere Alcide De Gasperi e ogni volta che la vado a trovare osservo con rammarico il piazzale, che non è più uno spazio per giocare, pieno com’è di auto parcheggiate. Non ci sono nemmeno più ragazzi che si divertono all’aperto. In casa di mia madre ci sono anche i ricordi della mia attività podistica, tra cui la canottiera della nazionale e il pettorale con cui ho gareggiato a Seoul 1988. Non posso pensare a un collegamento tra le miniolimpiadi della mia adolescenza e quelle di atleta, perché suscitano emozioni diverse. Ma in questi giorni di Giochi mi piacerebbe pensare che ci sono ancora ragazzini che corrono, saltano e lanciano nel cortile di casa, stimolati a imitare gli sportivi in televisione, ma soprattutto per il piacere di fare sport per divertirsi. ■

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