Mi è sempre piaciuto passeggiare nei boschi, specie in quota, dove tra gli alberi appaiono le vette delle montagne, ma non ho mai avvertito nessuna attrazione per le scalate. Avere un appoggio dei piedi precario nel corso di una salita mi toglie sicurezza, quindi arrivare in cima alle vette non è un mio obiettivo, anche se immagino che da lassù il panorama riservi emozioni impagabili.
Nonostante la mia repulsione per le ascese, una volta, a piedi, sono comunque arrivato a 4.800 m di quota, quasi l’altezza del Monte Bianco. Non si trattava però di una scalata. Nel 1979 partecipai alla sperimentazione di un mese di allenamento in quota. Il protocollo prevedeva che ci si allenasse ai 2.600 m di Città del Messico e di Amecameca, soggiornando al rifugio Tlamacas, sulle pendici del vulcano Popocatepetl. L’albergo era a 3.950 m sul livello del mare e da lì, per un paio di volte, percorsi un sentiero di cenere vulcanica fino a un bivacco posto, appunto, a quasi 4.800 m. Si trattò quindi di una camminata, anche se non tanto semplice, perché a quell’altezza le pulsazioni, per mantenere un passo spedito, superavano i 160 battiti. Quell’esperienza mi ha portato spesso a pensare che potrei salire anche più in alto.
Un obiettivo probabile potrebbe essere arrivare sulla cima del Kilimanjaro.
Ho visto filmati di persone percorrere i sentieri di questa montagna senza limitazioni rilevanti, quasi come fosse un trekking sulle Dolomiti, tanto che ogni anno riescono a giungere in vetta migliaia di appassionati camminatori. Non ne avrei dubitato. Non avrei mai immaginato invece che siano sempre tante, migliaia, le persone a essere arrivate in vetta all’Everest. La montagna più alta al mondo mi appare ancora come un’entità praticamente irraggiungibile, se non per quei soggetti dotati di caratteristiche fisiche e mentali adeguate all’impresa. Eppure l’ascesa agli 8.848 m della cima himalayana non è più una prestazione limitata a soggetti talentuosi. I primi a salire ufficialmente in vetta furono il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa nepalese Tenzing Norgay nel 1953. Da allora sono giunte in cima altre 4.636 persone (al 1° agosto 2018).
Appena un anno dopo l’impresa di Hillary e Norgay un britannico chiudeva il miglio in meno di 4’. Ai miei occhi questa corsa a perdifiato non è un’impresa pari a quella di salire in cima alla montagna più alta al mondo, probabilmente perché ritengo che la corsa sia un gesto più semplice. E in realtà lo è, sebbene correre a 2’29”/km (a oltre 24 km orari) – tale è il tempo di passaggio ai 1.000 m necessario per completare in meno di 240” i 1.609 m (e 344 mm) del miglio – è un’impresa ancora più ardua di scalare l’Everest. Anche questo non lo avrei immaginato, ma dal 6 maggio 1954 “solo” altri 1.496 uomini hanno percorso il miglio in meno di 4’.
Questi numeri mi fanno sorridere, pur mantenendo pieno rispetto per tutti quei soggetti che danno il meglio di sé per raggiungere un obiettivo, perché fanno sembrare più difficile piantare i chiodi sul tartan di una pista che i ramponi sul ghiaccio.