Azzurro dei 3.000 siepi a Pechino 2008, Matteo Villani oggi è un medico anestesista rianimatore all’ospedale di Piacenza, dove, dopo averlo combattuto per un mese e mezzo, ha contratto il coronavirus. Pronto a rientrare, ci aiuta a fare il punto sulla lotta alla malattia
Prima un servizio di Sportweek (sabato, 4 aprile, ndr), poi uno sul TG Uno (mercoledì, 8 aprile), ci hanno fatto avere notizie di Matteo Villani, protagonista sui 3.000 a siepi ai Giochi di Pechino 2008, sette volte in maglia azzurra tra il 2006 e il 2010. Da medico anestesista rianimatore sta vivendo in prima linea la lotta al coronavirus lavorando a Piacenza, non lontano da Codogno, dove venne ricoverato il cosiddetto “paziente uno”. Dopo un mese e mezzo di lavoro massacrante, ha contratto a sua volta il virus e è ora in quarantena. Sempre mercoledì, 8 aprile, è stato ospite della quotidiana diretta Facebook sulla pagina di Runners&Benessere, appuntamento cui si riferisce questo dialogo.
Prima domanda: come sta?
«Ormai bene. Aspetto solo di fare il secondo tampone, e che sia negativo, per tornare a lavorare.»
Come è cominciata la sua malattia?
«Quel giorno avevo prestato servizio per 12-13 ore. Una volta a casa, mentre mangiavo, ho cominciato ad avere febbre alta, tosse, poi di notte incubi, con delle “fami d’aria” incredibili, perché ti svegli in preda alla sensazione di non poter respirare. In questo, probabilmente, ha agito un elemento diciamo “psicotico”, perché si trattava dei sintomi avvertiti dalla maggior parte dei pazienti che avevo visitato. Dopo tre giorni difficili, ho cominciato a migliorare sempre più e ormai sono quasi pronto.»
Che ricordo ha di quando è cominciata questa pandemia?
«Una premessa: io sono anestesista rianimatore. Cosa vuol dire? Vuol dire che da me arrivano quelle persone che ormai sono “in acuto”, non possono fare a meno di un trattamento medico invasivo. Prima dell’epidemia, il nostro lavoro è sempre andato a flussi: un giorno più impegnativo, uno meno… Improvvisamente, il 20 di febbraio, ci è arrivato addosso lo tsunami.»
I dieci giorni terribili
«Tutto è cominciato a Codogno, che si trova a circa 10 km da Piacenza. Improvvisamente da là sono arrivate dieci, poi, venti, poi sempre più… fino a cento persone al giorno, tutte con gli stessi sintomi: crisi respiratoria, febbre alta, e molte non ce l’hanno fatta. Sono stati dieci giorni terribili, abbiamo dovuto correre senza mai fermarci. Dopo dieci giorni, grazie alla quarantena, la situazione si è, non dico normalizzata, ma è diminuito il numero degli ingressi in pronto soccorso di pazienti affetti da coronavirus e di conseguenza il numero di quelli che avevano bisogno di rianimazione o cure intensive non cresceva come prima. Questo ci ha permesso di rallentare noi, riorganizzarci e curare tutte le persone nel modo migliore. A Piacenza, ora, è subentrato un leggero calo della nostra attività, ma io ho molta paura della fine della quarantena.»
Un lavoro enorme
«Solo da Piacenza, in trenta giorni, abbiamo dovuto mandar via più di cento persone intubate, in coma farmacologico, nelle varie rianimazioni dell’Emilia-Romagna, perché non riuscivamo a far fronte all’emergenza. È un numero altissimo, vuol dire 4-5 persone al giorno, che si traduce in un lavoro enorme: prenderle in carico, valutarle, fare diagnosi, addormentarle, metterle in equilibrio, far sì che sopravvivano e far sì che possano sopportare il viaggio.»
Qual è lo stato d’animo prevalente in quelle condizioni?
«Il disagio. Quel tipo di disagio che può provare un medico che cura queste persone nel … non dico “abbandonarle”, perché non è così, ma affidarle – ecco, la parola giusta è “affidarle” – alle cure di altri medici, immaginando l’ulteriore disagio di quel paziente per il quale io sono l’ultima persona che ha visto, perché poi, davanti a me, si è addormentato e si è risvegliato da un’altra parte, disorientato. Tutto questo un medico fa fatica ad accettarlo, perché quando prende in cura un paziente, la partita diventa sua, è lui che lo vuole curare e fare il possibile per guarirlo.»
Si è letto e sentito che si è dovuto fare scelte dolorose tra chi intubare e chi no, in base all’età o alle patologie pregresse, ma intubare è davvero così invasivo? Si è visto che alcune persone che non potevano essere intubate poi sono morte…
«Sugli organi di informazione e da lì all’opinione pubblica è passato il concetto “tubo = salvezza”. Non è così. Ho visto tante persone, giovani, quarantenni, intubati e posti in coma farmacologico per giorni e non farcela. È sbagliato dire “Ti intubo, quindi ti salvo”. Poi ci sono pazienti, sia vecchi sia anche giovani, che nella propria vita hanno maturato patologie, polmonari soprattutto, ma non solo, a cui l’intubazione potrebbe non evitare, ma anzi aumentare il rischio di morte. Per questo motivo, questo tipo di pazienti non dovrebbero subire un’intubazione in coma farmacologico. Non la dovrebbero subire già in condizioni normali, cioè alla luce delle loro pregresse patologie, a maggior ragione se aggiungiamo la polmonite interstiziale da Covid-19.»
«In generale, va considerato che tutti i farmaci e tutte le “manovre umane sopra un altro uomo” sono nocive. Il coma farmacologico, l’anestesia in generale, non fanno bene. A maggior ragione, se queste stesse manovre le facciamo su un malato, aumenta il rischio. È un rischio che il medico anestesista di prende, perché pensa di dare una possibilità a un malato che altre possibilità non ha più. Nel caso dei Covid, delle polmoniti interstiziali, le persone più spesso colpite sono le persone anziane.»
Cosa si sta capendo del Covid-19?
«Probabilmente non capiremo mai perché è arrivato. La tesi più accreditata è che il virus dall’animale all’uomo abbia fatto un salto, come lo ha fatto la vita nel mondo, dall’acqua alla terra. È passato dal potersi riprodurre in un animale al potersi riprodurre in più animali, tra cui l’uomo. Visto dal suo punto di vista di virus, è una lotta per la sopravvivenza. Cerca degli esseri viventi con cui proliferare. Ha fatto questo scatto, non sapremo mai perché, ma dobbiamo prenderne atto.»
Cosa si potrà fare?
«Tutta la medicina mondiale sta cercando un vaccino di massa che, purtroppo, è l’unica cosa che possa darci una sicurezza sociale. Come il vaiolo, anni fa, che è stato debellato dal vaccino.»
Le cure per tutti
«Una cura, in realtà, l’abbiamo, una cura preventiva: stiamo in casa, proteggendo così noi stessi e i nostri famigliari, e dando tempo ai sanitari di concentrarsi su chi sta male. Adesso arriverà l’estate e speriamo che questo virus diminuisca di intensità, come è già capitato con un altro coronavirus, quello della Sars, ma aspettiamoci che ci possa essere una ripresa in autunno, come per tutte le influenze e speriamo per quel momento di essere preparati.»
«Quello che sempre più sarà fondamentale è arrivare precocemente. I sintomi che si avvertono a casa devono funzionare come un sistema di allarme, perché se uno arriva all’ospedale con due settimane di febbre che non passa, avrà a quel punto dei polmoni che hanno scarsissime possibilità di riprendersi. Se invece tu mi arrivi dopo cinque giorni, le chance aumentano molto di più.»
In Italia, secondo lei, lo scoppio della malattia in Cina è stato sottovalutato?
«Un allarmismo maggiore avrebbe aiutato la prevenzione. Perché il nostro primo paziente, a Piacenza, è stato un paziente “elettivo”, cioè un paziente ricoverato per un intervento chirurgico programmato da tempo. L’intervento è andato benissimo, ma dopo due-tre giorni ha cominciato a non riuscire più a respirare: fatto il tampone, è risultato positivo e si è scoperto che a casa aveva contagiato tutti.»
«Nessuno ce lo dirà mai, ma non è possibile che la percentuale di morti che hanno dichiarato di avere avuto in Cina sia minore della nostra, con il servizio sanitario che abbiamo noi. Soltanto a Piacenza, in un mese, sono morte 700 persone, su circa 300.000 abitanti in tutta la provincia. Solo a Wuhan, quanti milioni di persone vivono?»
Cosa si sa, invece, della cifra-ombra italiana, dei cosiddetti asintomatici?
«È la preoccupazione di cui parlavo prima, collegata alla fine della quarantena: sicuramente sono tante le persone che si sentono bene, non si accorgono di avere contratto il virus, che addosso a loro, magari, si esprime con un semplice raffreddore. Abbiamo avuto casi di persone che sono risultate positive al tampone dopo tre giorni di raffreddore o tosse diciamo “normale”, cioè quel tipo di disturbi che possono essere confusi con quelli da cambio di stagione, ad esempio. Queste persone il coronavirus lo hanno passato, sono guarite, ma per un periodo ristretto di tempo, quello dei sintomi, hanno trasmesso il virus agli altri.»
Queste persone che hanno superato “in piedi” il coronavirus, possono essere utili alla ricerca?
«Premesso: non sappiamo se queste persone che lo hanno passato, che sono guarite, siano immunizzate, perché non conoscendo il virus non possiamo sapere se la guarigione comporti l’essere poi immuni. Con questi pazienti si è provato a prelevare quella parte di sangue che chiamiamo plasma, al cui interno ci sono le immunoglobuline, che sono la nostra difesa, sono una sorta di “carrarmatini”, piccoli carri armati dentro il sangue, che sparano al virus. Sono limitate e non c’è ancora, ad oggi, un’evidenza scientifica accertata. È una prova che si fa, un tentativo. Lo abbiamo fatto anche a Piacenza, ma, se devo dire la verità, non ha fatto la differenza, ma un giudizio lo si potrà dare solo sui grandi numeri. Quello che sappiamo adesso è che del coronavirus Covid-19 noi non abbiamo una cura. Possiamo solo allungare il periodo di vita e quindi la possibilità di sopravvivenza del paziente, con i nostri mezzi e la nostra umanità.»
La cronaca sembra dirci che gli uomini sono più colpiti delle donne…
«In terapia intensiva come nel pronto soccorso e nei reparti, non ho visto ragazze giovani, al di sotto dell’età della menopausa. Tutte le donne che ho visto con patologie polmonari interstiziali erano in età da menopausa. Non me la sento di darlo per certo, però la fascia femminile dell’età fertile sembra meno vulnerabile. Così come da poco è uscito uno studio dal quale sembra, e sottolineo “sembra”, che il gruppo sanguigno zero sia meno vulnerabile.»
In caso di sintomi, cosa dobbiamo fare?
«Avvertire il medico di famiglia, che è il tramite tra l’assistito e l’ospedale. È lui che lo segue nei giorni successivi e, se la situazione peggiora, è lui che chiama l’ospedale o dice comunque all’assistito di presentarsi al pronto soccorso. Purtroppo in questo periodo i centralini sono presi d’assalto, anche per questo è meglio fare riferimento al medico di famiglia.»