La corsa in natura, soprattutto se dura delle ore, è un viaggio interiore dove, sul percorso, si incontrano demoni che ci mettono alla prova. Se siamo abbastanza allenati a tenere i nervi saldi, riusciamo a raccoglierli nel sacco e a portarli domati fino al traguardo, che altro non è che un nuovo pezzo di consapevolezza, di conoscenza interiore, di illuminazione spirituale.
Sul numero di Correre di marzo, Tite Togni ci spiega che il trail ha quell’effetto primordiale di comunione con la natura e al tempo stesso con la parte più autentica di noi stessi che amplifica l’effetto “meditativo” del gesto ripetitivo del piede che batte sul terreno. Esattamente come nello yoga.
Rispetto alla corsa su strada, il trail è meno ripetitivo e quindi meno foriero di infortuni da sovraccarico, ma proprio per la varietà e mutevolezza del terreno, nella corsa in natura è vitale rimanere consapevoli di ogni passo, fino a quando l’esecuzione diventa meditazione in movimento. La chiave per prevenire gli infortuni è la consapevolezza, la concentrazione sull’azione, in continuo contatto con l’ambiente e il terreno.
Lo yoga è per la corsa come la catasta di legna intorno alle mura di una casa di montagna, come la corsa è la stufa accesa. Nello yoga l’energia si prepara, per essere consumata nel fuoco della stufa. In comune? Il viaggio interiore, il lavoro sul corpo come chiave di accesso al mentale. Lo yoga è la palestra del corpo e della mente insieme, non solo per fortificare ma soprattutto per rilassare nello sforzo.
Tite Togni ci indica poi la pratica dinamica di asana ovvero posizioni nel respiro, per predisporre corpo e mente alla corsa trail.