Film, libri, magliette e gadget di ogni genere si sprecano. Ma lo sapevate che Steve Roland Prefontaine è l’unico atleta ad avere una statua dedicata nel quartier generale del colosso Nike , a Beaverton?
Poi c’è quella piccola lapide, su quella maledetta curva della collina di Skyline Boulevard, meta di pellegrinaggio per fan di tutto il mondo. Quarant’anni dopo la sua tragica scomparsa, tra le tribune di legno dell’Hayward Field si respira ancora l’essenza di Prefontaine, pardon “Pre”, una sorta di mitologia dell’incompiutezza.
Quella che ha ispirato e che e continua a ispirare intere generazioni di atleti. Non solo i Jym Ryan, i Frank Shorter e i Bill Rodgers, che negli anni ’70 furono i simboli genuini e innovativi di un nuovo stile di corsa, sfociato poi nel fenomeno delle maratone di massa.
Perché questo ragazzo di Coos Bay, che quando scendeva in pista accendeva gli stadi, è diventato un mito pur non avendo mai assaporato quell’attimo di immortalità che solo i podi internazionali apparentemente garantiscono?
Intanto perché Pre non si atteggiava affatto a personaggio.
Il suo modo di correre, sempre a testa alta e sempre in testa, quel suo atteggiamento a volte sfrontato, sempre di sfida contro i suoi avversari, rappresentavano una ventata di freschezza per noi ragazzi degli anni ’70.
Il mito è arrivato dopo. Come spesso accade con chi ci lascia in modo drammatico. Senza aver avuto il tempo di svelarci cosa sarebbe stato capace di fare, se solo il destino non lo avesse punito anzitempo.