Siepista, quindi maratoneta, poi specialista della montagna. Maglia azzurra in sei specialità diverse. Medico dello Sport. Tocca a lei prendere la parola sull’epidemia di Covid-19: «Correre non è illegale. In questo periodo, però, non esageriamo né con la durata né con il chilometraggio, e uniformiamoci alla legge che dice di correre da soli.». «L’attivazione delle endorfine è fondamentale. Restare chiusi in casa può destabilizzare e addirittura deprimere.» Ecco l’intervista.
Classe 1980, la genovese Emma Quaglia è da sempre nel mondo dell’atletica. Prima siepista, quindi maratoneta, poi specialista della montagna. È l’unica, nella storia dell’atletica italiana, ad aver vestito maglie azzurre di sei specialità diverse (siepi, cross, mezza maratona, maratona, corsa in montagna e trail running). Al tempo stesso è medico con specializzazione in Medicina dello sport.
Ritiene che la chiusura delle scuole possa preservare i più giovani?”
«È una misura intelligente, perché il distanziamento è un concetto fondamentale nella lotta ai virus. Sappiamo che i giovanissimi hanno meno probabilità di contrarre la malattia, ma occorre eliminare tutti i fattori scatenanti.»
Come le appare l’emergenza?
«Grave e stupefacente. Abituiamoci a un periodo di lotta molto lungo. È vero che il nostro sistema sanitario si sta rivelando un’eccellenza e qualitativamente superiore ad altri stati, come la Gran Bretagna. È altrettanto vero, però, che c’è una carenza preoccupante di sistemi di protezione come le mascherine, che in certi luoghi di lavoro, come gli uffici, non ci sono dotazioni appropriate per contrastare il fenomeno. Questi aspetti mi fanno preoccupare. Poi ci sono stati anche comportamenti inappropriati, almeno all’inizio, che mi sono sembrati simboli di inciviltà: ho visto gente che andava agli “apericena”, nonostante ci fossero già stati i primi allarmi».
Qualcuno ha paragonato il coronavirus, nella sua velocità, al fuoco che si propaga nella prateria. Quando si è resa conto della gravità?
«Il 20 febbraio avevo ordinato delle mascherine per me. Servivano per visitare i pazienti. Avevo mandato l’ordine via internet. Niente, erano state esaurite! Eravamo solo agli inizi, almeno per quanto riguarda l’Italia, della pandemia: ho capito che sarebbero arrivati tempi molto duri. E lo dico io che, pur essendo un medico, non sono in prima linea negli ospedali. Penso poi ai miei colleghi, al personale sanitario. Terribile.»
Cosa può dirci, da medico e, nel contempo, da top runner? Avrà seguito la diatriba infinita sull’andare o non andare a correre…
«Penso diusare cautela e, al tempo stesso, buon senso. La prima cosa è che ritengo ci sia stato un incattivimento ingiustificato, sia nella rete sia fra la gente, nei confronti dei runner. Sembra quasi che si vogliano creare capi espiatori, una brutta abitudine di questi tempi.»
I runner come gli untori di manzoniana memoria…
«Tutto questo mi sembra ingiusto e anche irrazionale. C’è un decreto che detta regole precise per l’attività motoria all’aperto. Correre non è illegale. In più, usiamo il nostro buon senso: in questo periodo non esageriamo né con la durata né con il chilometraggio, uniformiamoci alla legge che dice di correre da soli, in luoghi distanti da assembramenti. Proprio nel frangente di adesso l’attività motoria, praticata in maniera razionale, seguendo la legge, ci preserva in generale da infezioni, malattie e inoltre favorisce il benessere psicofisico. L’attivazione delle endorfine, fenomeno connesso con gli sport aerobici, contribuisce a un senso di rilassamento psicologico che trovo importante, fondamentale in un periodo in cui restare chiusi in casa può destabilizzare e addirittura deprimere.»
Comunque, si può ripiegare su attività sostitutive casalinghe come cyclette, spinning, tapis rulant …
«Certamente, è quello che sto facendo anch’io. Per il resto, non sono solita fare degli appelli. Certo, è un momento difficile: tanto per fare un esempio, per rispettare il distanziamento non vedo i miei genitori dal 22 febbraio. Però il nostro sistema sanitario è efficiente, lo ripeto. Pensiamo a paesi dove il primo ospedale è a 200 km di distanza, oppure dove manca l’energia, dove scarseggiano materie prime … Sarà dura, ma possiamo farcela.»