Fare il tifo a una maratona è un’esperienza che vale come una seduta dallo psicologo. Soprattutto se non ci si limita a stazionare in un solo punto del percorso ma si cerca di andare a scoprire l’anima della competizione. Era da un po’ che non lo facevo e mi ero dimenticata di quanto possa essere emozionante e ricco di spunti e motivazioni, per la corsa ma anche per tutto il resto.
A Ravenna, lo scorso novembre, dopo aver corso la 10 km, sono andata a cercare lungo il percorso Cinzia, Edith ed Erika, le tre maratonete del progetto Correre che disputavano quel giorno la loro gara. Io e Julia Jones ci siamo posizionate in un punto strategico.
Cosa succede al 38° km di una maratona? Possono avervi parlato di muro del 30° km, di crisi che si superano per arrivare alla fase finale in una condizione che è ormai un “oltre”, ma comunque, ve lo garantisco, a quel punto tutti sono davvero sfatti. C’è chi strascica i piedi, oppure arranca con delle andature a metà tra l’azzoppato e l’infortunato, tanto che ti verrebbe da avvicinarti per sorreggerli tutti, ma correresti il rischio di essere picchiato, perché nella loro testa stanno correndo con lo stesso stile di Haile Gebrselassie nella giornata perfetta di Berlino 2008. Ci sono poi i “rantolatori”, quelli che farebbero i soldi a doppiare le sequenze più hard dei film porno, ma vanno avanti imperterriti e con il candore di una carmelitana, senza fare un plissé. E poi gli sguardi: quelli decisi da killer dei chilometri, quelli vuoti di tutto tranne che di fatica e dolore, quelli proprio incazzati da “se becco quello che mi ha fatto iscrivere lo strozzo”, quelli increduli di essere ancora lì, dopo ore di corsa.
“Be’, l’anno prossimo volevo riprovare a preparare una maratona, ma quasi quasi lascio perdere”: questo è stato il mio retropensiero dominante mentre urlavo: “Dai che ci sei quasi, forza che non manca molto”. Poco più in là, al 42° km, ho visto succedere tanti miracoli, uno per ogni runner che avevo incrociato una ventina di minuti prima. La luce di sorrisi meravigliosi, dove c’era solo la piega amara delle labbra, gli occhi pieni di gioia e le lacrime, tante lacrime, di quelle contagiose, da pelle d’oca e brividini sulla schiena. E anche la forza di mettersi sulle spalle bambini, di dare cinque che spezzano le falangi, di urlare con tutta l’energia che sembrava essersi dileguata per sempre e che a quel punto torna, moltiplicata. Ed è lì che ho pensato che una metamorfosi di questo genere vale proprio la pena di provarla ancora, perché è davvero un istante che vale il viaggio, la prima come la millesima volta. Complimenti a tutti i maratoneti e grazie per l’emozione.