Oggigiorno ci sono migliaia di persone che si cimentano nelle maratone. Per farlo pagano dei bei soldi, poiché il pettorale non te lo regala nessuno; se poi vai in trasferta, le spese aumentano. Dunque ricompense o gratificazioni economiche, il 99,9% degli iscritti proprio non ne ha.
Ma non è finita qui: correre per 42,195 km significa faticare di brutto. Per la precisione, per la stragrande maggioranza dei partecipanti significa impegnarsi al massimo, faticare da bestia e arrivare comunque con un distacco dai primi variabile tra un’ora e mezza e due ore e mezza.
Che senso ha tutto questo? Nessuno, se applichiamo la logica delle motivazioni estrinseche: nessuno li obbliga. E in ballo non c’è alcuna forma di gratificazione economica.
Eppure, la gente partecipa lo stesso. Anche se arriva un’infinità di tempo dopo i primi è felice. Si sente realizzata. Alcuni addirittura piangono tagliando il traguardo. Per il male ai piedi, suggerite? No, di gioia: perché la molla che li spinge non è vincere sugli altri, ma su loro stessi. Non sono mossi dalla prospettiva di guadagni ma, al contrario, sono disposti a sborsare. Tutto questo pur di agguantare il piacere che scaturisce dall’avercela fatta, dall’avere saputo superare delle grandi difficoltà, dall’aver vinto una sfida con se stessi.
Una delle motivazioni più potenti proprie degli esseri umani è quella che gli psicologi definiscono intrinseca e che ha a che fare con il piacere di sentirsi capaci, in grado di superare in modo efficace le difficoltà e di vincere delle sfide.
Ed è proprio di questo che ci parla Pietro Traucchi, psicologo dello sport, in un affascinante articolo pubblicato su Correre di Aprile “Vere e false motivazioni“, con un confronto tra quelle intrinseche e quelle estrinseche contestualizzato nell’attuale scenario running costellato di imprese estreme che superano di gran lunga la distanza della maratona.