Il 19”72 stabilito allo stadio “Universitario” di Città del Messico è rimasto primato mondiale per 6.129 giorni. Ancora oggi è il tredicesimo miglior risultato di sempre e il primo tempo europeo
A Città del Messico erano le tre e un quarto del pomeriggio di mercoledì 12 settembre 1979, quando cominciò la finale dei 200 m maschili delle Universiadi. Pietro Mennea vinse in 19”72 (vento + 1,8 m/sec.) migliorando il primato del mondo stabilito dallo statunitense Tommie “Jet” Smith con 19”83 (vento + 0,9 m/sec.) nella finale dei Giochi olimpici del 16 ottobre 1968, su quello stesso stadio “Universitario” della capitale messicana.
Il valore del primato nel tempo
Il record del velocista azzurro, già allora soprannominato “la Freccia del sud”, andò incontro a una longevità straordinaria: 6.129 giorni, da quel 12 settembre 1979 al 23 giugno 1996, quando il texano Michael Johnson corse in 19”66 (vento + 0,4 m/sec.), ad Atlanta (USA), quindi a livello del mare, tempo che poi migliorò ulteriormente (19”32, + 0,4 m/sec), sempre ad Atlanta, nella finale olimpica del primo agosto di quello stesso anno.
Per veder correre ancora più velocemente un 200 metri occorrerà attendere l’era di Usain Bolt. Il giamaicano ha stabilito per due volte il primato mondiale dei 200 metri: prima ai Giochi olimpici di Pechino 2008 (20 agosto) con 19”30 (vento -0,9 m/sec.), poi l’anno successivo, ai Mondiali di Berlino con l’attuale limite umano di 19”19 (vento -0,3 m/sec, 20 agosto 2009).
A distanza di quarant’anni esatti da quel giorno, nelle liste all time pubblicate dalla Iaaf, il 19”72 di Pietro Mennea è ancora il 13° risultato di tutti i tempi. Quel “crono” resta inoltre il 200 metri più veloce a livello europeo, di otto centesimi più rapido del 19”80 del francese Cristophe Lemaitre, segnato ai Mondiali di Daegu 2011.
Il racconto del campione
Di quel “crono” indimenticabile resta traccia nei molti libri scritti da Mennea, a partire dall’autobiografia “La corsa non finisce mai”, dell’editore Límina, da cui è stato tratto il racconto pubblicato su Correre di settembre, alle pagine 86-88.
Qui riportiamo il momento-clou della narrazione:
“Ecco lo sparo. Parto veloce rialzandomi in spinta perfetta. Primi 100 metri, mi diranno poi, in 10”04 “manuali”, che significa 10”28 “elettrici”. Un tempo eccezionale trattandosi di corsa in curva.”
“Sento di aver “remato” leggermente in curva, espressione da campo che indica l’avanzare non in linea con la curvatura della corsia, un po’ di lato per effetto della spinta del piede destro, esterno rispetto alla direzione di gara, che appoggia sfasato a volte anche di 70-80 gradi rispetto alla linea di avanzamento, proprio per consentire al corpo di curvare. E per effetto, pure, della sproporzione inevitabile tra quanto spinge la gamba destra rispetto alla sinistra, perché a ogni passo deve picchiare un po’ più dell’altra, proprio per aggiungere alla spinta in avanti quel minimo di direzione laterale che mi fa sterzare: la remata, appunto.”
“Controllo bene la sbandata che ne segue nel momento in cui dalla curva entro in rettilineo: i piedi e il braccio destro lavorano bene. Uno sbandamento giustificato: saprò poi che in quel momento stavo correndo a 36,511 km/h. Sì, non è un errore: trentasei chilometri all’ora con le mie gambe.”
“Mi ero concentrato soprattutto su un obiettivo: cercare di raggiungere al più presto la massima velocità di cui ero capace e mantenerla il più a lungo possibile. Ed è qui che aggiungo qualcosa di mio, fuori da ogni previsione di Vittori o personale: un finale di gara che ancora oggi ha dell’incredibile. I secondi cento metri sono stati coperti in 9”44. Per arrivare a questo è necessario e inevitabile che nel tratto tra i 100 e i 150 metri io abbia toccato punte vicine ai quaranta chilometri orari.”
“Smetto di spingere praticamente solo sulla linea d’arrivo. I miei avversari sono lontani. Mi piego su me stesso, chiudo gli occhi e ascolto… Pochi interminabili attimi interrotti dal violento boato della folla: 19”72.”