Non ha rappresentato, purtroppo, una novità l’omicidio di Benjamin Kiplagat nella patria per eccellenza del distance running. La memoria di quella Nazione-culla della corsa è flagellata da numerosi omicidi di atleti, a volte mai del tutto risolti sotto l’aspetto giudiziario, dove accanto agli eventi generati in un contesto di criminalità compaiono episodi di violenza famigliare. Ecco il triste elenco dei casi più famosi, da Agnes Tirop a Sammy Wanjiru.
Benjamin Kiplagat, mezzofondista keniano, naturalizzato ugandese, è stato ucciso a Eldoret, dove si allenava, nell’ultimo giorno dell’anno. Il corpo, ritrovato dal fratello all’interno dell’auto del runner, presentava visibili e mortali ferite da arma da taglio al collo e al petto. La più probabile dinamica del delitto è quella di una rapina. La polizia ha arrestato due uomini di circa trent’anni, già noti alla Giustizia, uno dei quali sarebbe stato trovato in possesso della probabile arma del delitto.
L’analogo rischio corso da Paul Tergat
Di una rapina rimase vittima, per fortuna senza gravi conseguenze fisiche, anche Paul Tergat, durante l’estate poi culminata con i Giochi olimpici di Atene 2004: il suo flop nel massimo appuntamento (si presentò da primatista del mondo col 2:03’59” ottenuto il 28 settembre 2003 a Berlino e giunse decimo in 2:14’45” nella gara vinta da Stefano Baldini), oltre che da cattive condizioni di salute fu determinato anche dallo shock causato da una rapina subita mentre rientrava a casa, a Nairobi, quando scese dall’auto per aprire il portone del garage, nella sua villa sulle Ngong Hills, nel lussuoso Zambia District, e si ritrovò un coltello puntato alla gola.
Il Kenya che uccide i suoi top runner
La rapina ai conduttori delle auto di pregio è molto frequente in Kenya e più volte ne sono rimasti vittime i top runner, ricchi (soprattutto in rapporto al potere di acquisto in Kenya di montepremi e bonus-record guadagnati in dollari) e localmente famosi come i calciatori in Europa. Un’esposizione mediatica che non riguarda i soli “big” assoluti, come i grandi maratoneti (Kipchoge e Kiptum, ad esempio): la popolarità si estende anche a quei runner che in altri Paesi rappresenterebbero l’eccellenza, ma che in Kenya, come in Etiopia, Uganda o Eritrea, non è esagerato definire “di fascia medio-alta”, come nel caso di Benjamin Kiplagat, appunto.
Delle purtroppo frequenti morti violente di runner keniani ci occupammo su Correre di febbraio 2022, in un dossier intitolato “Il Kenya che uccide i suoi top runner”, che qui riproponiamo. Si tratta di un triste ripasso dei casi più famosi, dove accanto agli eventi scaturiti in un contesto di criminalità compaiono episodi di violenza famigliare. Lo spunto per quell’approfondimento, infatti, ci venne fornito dall’omicidio della mezzofondista Agnes Tirop a opera del marito.
Il femminicidio di Agnes Tirop
Era mercoledì 13 ottobre 2021 quando la cronaca ci costrinse a lanciare su correre.it questa news: “Arriva dal Kenya una tragica notizia. Agnes Tirop, 25 anni, è stata trovata morta nella sua casa di Iten, il paese dove vivono molti top runner, nella provincia di Elgeyo Marakwet. Ne ha dato notizia Barnaba Korir, ex atleta ora membro della federazione atletica keniota. Il corpo della campionessa presenterebbe ferite all’addome compatibili con l’azione di un machete”.
Sul macabro foglio del taccuino di quei giorni restano sedimentate tre date: la sera di martedì 12 ottobre, quando il padre denuncia la scomparsa, preoccupato per le mancate risposte alle telefonate, la mattina di mercoledì 13 ottobre quando la polizia entra in casa della campionessa trovando il cadavere sul letto e una pozza di sangue sul pavimento, e venerdì 15 ottobre quando il marito, Emmanuel Rotich, viene bloccato all’aeroporto di Mombasa mentre cerca di fuggire all’estero.
Nonostante il curriculum invidiabile, per molti appassionati di running (soprattutto in Italia, dove ancora serpeggia un certo malcelato fastidio per “tutti questi troppi kenioti”) Agnes ha fatto più notizia con la sua morte che con gli splendidi risultati già raggiunti alla sua giovane età: dopo le medaglie di bronzo nei 10.000 m ai Mondiali di Londra 2017 e Doha 2019, aveva partecipato ai Giochi olimpici di Tokyo giungendo quarta nei 5.000 m il 2 agosto 2021 (la gara dove ha brillato la nostra Nadia Battocletti, settima).
Agnes, però, si era già imposta all’attenzione del mondo dell’atletica nel 2015, quando aveva vinto i Campionati mondiali di cross a soli 19 anni, diventando la seconda più giovane vincitrice della gara dopo la leggendaria sudafricana Zola Budd.
Nata il 23 ottobre 1995, con il primato personale di 14’20”68 nei 5.000 m era, in quell’ottobre 2021, la decima miglior atleta di sempre nelle liste della World Athletics, ma, per i complicati e a volte un po’ cinici meccanismi della comunicazione, più di questi risultati in specialità “nobili” e “storiche” aveva fatto notizia la sua vittoria nell’evento Adizero Road to Records di Herzogenarauch, quartier generale dell’Adidas in Germania, quando aveva migliorato di 28 secondi il primato del mondo dei 10 km su strada correndo in 30’01” il 12 settembre (quasi un mese esatto prima della morte). In un gioco al massacro mediatico, a sua volta, con la propria morte violenta la Tirop aveva finito per “oscurare” quella, simultanea, di un altro suo connazionale-atleta, il giovane Hosea Mwok Macharinyang, probabilmente suicida.
La maledizione dei Kimaiyo
Quando, il 13 ottobre 2019 a Chicago, Brigid Kosgey ha corso in 2:14’04” togliendo così a Paula Radcliffe lo stagionato primato della maratona (il 2:15’25” di Londra 2003), i riflettori si sono accesi anche su Erik Kimaiyo, suo allenatore (formato da Gabriele Rosa dopo una carriera da maratoneta dove spiccano il secondo posto a Berlino ’97 e le vittorie nelle 42 chilometri di Honolulu e Baltimora), che ha fondato un training camp vicino al suo villaggio natale, Kapsait, quasi 3.000 m di quota sulle alture boschive della parte del Kenya che guarda all’Uganda.
Qui la morte per omicidio ha bussato due volte alla casa dei Kimaiyo.
Si perde nella memoria una feroce rissa per un trattore che sconfina nel territorio dei Pokot, piccola tribù di montagna che abita proprio sull’altura di fronte a Kapsait in un pugno di misere capanne, dov’era nata Tegla Loroupe, la prima grande mezzofondista e maratoneta keniota. Un fratello di Erik viene ucciso così, in una banale lite che degenera. Più vivo è il ricordo dell’omicidio di Joshua Kimaiyo, giovane e forse troppo esuberante maratoneta lanciato sulle orme del più anziano e famoso fratello, che conclude la vita in una capanna abbandonata, non lontano proprio da quel training camp dove gli altri atleti stanno dormendo. I sicari attirano lì Joshua nel cuore della notte con la collaborazione di una giovane, disponibile o costretta a proporsi come esca, e lo freddano con un colpo alla nuca a pantaloni appena abbassati. Sentenza eseguita per quale sgarro? Debiti di gioco che troppo spesso avrebbe promesso di saldare con le vittorie in maratona che però doveva ancora ottenere o troppa passione per troppe giovani donne già promesse in sposa a qualcun altro, promesse che in Kenya procurano reddito alla famiglia della ragazza?
Il caso Wanjiru
Un altro che, probabilmente, ha pagato con la vita la propria debolezza verso l’alcol e il sesso facile è Samuel “Sammy” Wanjiru, primo keniota a vincere il titolo olimpico di maratona (Pechino 2008) per di più con il record dei Giochi (2:06’32”). È questo l’episodio di “nera” che più di tutti ha colpito l’attenzione del mondo running, perché in quella notte del 15 maggio 2011 in cui ha perso la vita nella propria casa di Nyahururu, il ventiquattrenne corridore keniota era a giusto titolo considerato il miglior maratoneta al mondo per l’oro a cinque cerchi portato a casa a 22 anni non ancora compiuti (era nato il 10 novembre 1986) e per la serie di vittorie straordinarie nelle stagioni 2009-2010, ivi compresa quella a Chicago nell’autunno 2010, 2:06’24” in fondo a una rimonta last minute sull’etiope Taegaye Kebede; vittoria alla quale, però, nel novembre subito successivo, era seguito l’arresto per ubriachezza, con annessa accusa di aver tentato di sparare col fucile alla moglie e alla guardia del corpo.
L’ultima sera di vita di Wanjiru è raccontata con la definizione di una fotografia nell’autobiografia di Gabriele Rosa intitolata Correre la vita, dove trova spazio la testimonianza di Claudio Berardelli, all’epoca responsabile tecnico in Kenya degli atleti della “scuderia” dell’allenatore-medico bresciano. Claudio, ultimo degli italiani a vedere vivo Wanjiru, ricorda che Sammy aveva lasciato Eldoret, dove si era rimesso sotto con gli allenamenti, per passare un fine settimana a casa prima della partenza per San Diego, in California, dove era atteso al rientro agonistico nella mezza maratona. Wanjiru era partito in compagnia dell’amico e compagno di allenamenti Daniel Gatheru (“forse la sua sola famiglia”, scrive Berardelli, che da quel momento riporta il racconto poi ricevuto da Gatheru stesso): “Arrivando in vista di Nyahururu, Sammy aveva voluto fermarsi a cenare in un ristorante e alla fine del pasto si era accomiatato dall’amico dicendogli di voler andare a casa a dormire. Si era invece recato poi da solo in un pub per incontrare una ragazza che lavorava come cameriera e nell’attesa che finisse il suo orario di lavoro aveva cominciato a bere. Quindi, assieme alla ragazza, si era avviato verso casa. Appena arrivato, uno dei guardiani lo aveva avvertito che la moglie, Teresa, era fuori, ma che sarebbe tornata.
Nella ricostruzione di Gatheru, al rientro della moglie, Sammy e l’amica stavano guardando la televisione in salotto. Da quel momento il susseguirsi degli eventi è confuso. Secondo Daniel, la moglie era uscita di casa di nuovo e i due avevano deciso di salire in camera da letto. Poco dopo, però, Teresa avrebbe fatto dietrofront e, rabbiosa, si sarebbe precipitata a chiudere a chiave, nella camera, Sammy e la ragazza.
Pochi minuti dopo si è sentito un tonfo e, insieme, un grido. Sammy Wanjiru stava disteso per terra sotto a un balcone, con il cranio fratturato. Qualche minuto prima della mezzanotte, il campione veniva dichiarato morto dai medici dell’ospedale di Nyahururu”.
Dopo la vittoria a Pechino 2008, il fotografo Giancarlo Colombo si era recato a casa di Wanjiru. Nelle immagini di quel servizio si vede anche il balcone del volo mortale. «Allungando il braccio avrei potuto toccare quel davanzale da cui poi sarebbe caduto» ricorda il fotoreporter. Colombo è un uomo alto più di un metro e novanta, ma quel balcone non arrivava a tre metri di altezza. Da lì è difficile cadere così male da spaccarsi il cranio, anche per un ubriaco. Più probabile che a cadere quella sera non sia stato Sammy Wanjiru, ma già il suo cadavere, ipotesi avvallata dai lividi e le ferite riscontrate in vari punti del corpo dell’atleta, non riconducibili alla caduta.
Non sarebbe stata la prima volta che fratelli e famigliari della moglie gli impartivano una lezione per le scappatelle coniugali, solo (ma resta un’ipotesi) la prima volta in cui sarebbe “scappata la mano”.
Scrive infine Gabriele Rosa in chiusura del doloroso capitolo: “Samuel è stato travolto da una situazione famigliare che non è riuscito a dominare. Da un contrasto tra la madre e Teresa, la moglie, che lo ha sfibrato. Da troppi che puntavano alla sua ricchezza, invece che al suo bene”.
Trappola in famiglia
E a puntare sulla ricchezza di un top runner sono spesso in troppi, in quel Kenya ancora sostanzialmente agricolo e di montagna da cui provengono spesso i migliori talenti. Lontano dalle metropoli come Nairobi o Mombasa, come dalle località turistiche sulla costa, è ancora tollerata la poligamia. Un atleta che comincia a vincere e, per quel che là più conta, a guadagnare, scopre d’improvviso di essere circondato da fratelli, cugini e zii di cui a volte non conosceva l’esistenza, ognuno con i propri figli che si fatica a mantenere, malattie per le cui cure servono soldi, affari cui è folle rinunciare, debiti degli avi contratti sulla parola. Prima di stupirsi, occorre ricordare che il potere di acquisto del dollaro in Kenya è di molte volte superiore a quello che la stessa moneta ha in Occidente e che le centinaia di migliaia di dollari di una vittoria in una maratona di massimo livello possono davvero cambiare la vita di un ragazzo, che si ritrova per questo immerso in una palude umana che opprime e minaccia, e non di rado la trappola è all’interno della famiglia. A maggior ragione se si tratta di una runner, il cui marito, pur di riprendersi i pantaloni, si improvvisa allenatore o manager.
I dubbi sulla fine di Lokomwa
Davvero non si sa se a queste dinamiche sia riconducibile anche la morte di Thomas James Lokomwa, avvenuta nella tarda sera del 21 settembre 2016 in Kenya, non lontano da casa sua. Capace di correre la mezza maratona in 1:00’33”, Thomas era diventato in quegli anni una figura familiare ai podisti italiani, abituati a vederlo vincere con la maglia del Parco Alpi Apuane, il cui presidente, Graziano Poli, ricorda bene il motivo di quell’ultimo viaggio: comunicare alla moglie e agli altri parenti la decisione di chiedere il divorzio per poter vivere alla luce del sole una nuova relazione sorta con una donna italiana. Lokomwa avrebbe lasciato la casa della famiglia dopo cena e con la sua auto sarebbe finito fuori strada poco dopo, ribaltandosi. Descritto da chi lo ha conosciuto come una persona tranquilla e con la testa sulle spalle, resta da capire perché si sarebbe avventurato, come uno sprovveduto, a fare quello che tutti in Kenya cercano di evitare: guidare di notte, su strade non illuminate e dissestate, senza alcuna urgenza, visto l’orario del volo di ritorno, l’indomani.
Gli incidenti stradali, poi, rappresentano un’ulteriore striscia di morte che nel tempo ha colpito molte giovani promesse dell’atletica; alle cause comuni ad altre parti del mondo, come l’alcol e l’inesperienza al volante, in Kenya si aggiungono le cattive condizioni delle strade e la facilità di guidare anche senza aver conseguito una patente.