Ho percorso innumerevoli chilometri tra le strade e i sentieri del Central Park. Ricordo bene ancora la prima volta che vi ho corso e quando, dopo aver fatto alcuni giri del Reservoir, disorientato dai palazzi che contornano il parco, non ero in grado di individuare da quale parte dovevo uscire. E così, invece di una seduta di un’ora, sono rientrato in hotel dopo un’ora e mezza, a tre giorni dalla maratona.
Ricordo bene anche l’incontro con Dustin Hoffman. Ero in città, nel settembre del 1985, per presentare la maglietta ufficiale di quell’edizione della maratona. Dovevo svolgere una seduta di due ore, e anche in quell’occasione ero uscito molto presto a causa del fuso orario. Alle 6 e mezza stavo percorrendo l’ultimo giro del Reservoir quando ho incrociato un viso conosciuto. Solo qualche passo dopo mi sono reso conto chi era quel “tracagnotto” che zompettava sullo stradino di terra battuta che costeggia il laghetto. Ho così accelerato il passo per incrociarlo nuovamente dall’altra parte. Il saluto che Dustin ha contraccambiato mi ha elettrizzato, e ancora oggi lo ricordo come uno degli eventi più emozionanti delle mie corse nel parco newyorkese. Tantissimi altri ricordi si sono sedimentati nei miei pensieri, e li rivivo spesso con piacere, per ricrearmi sensazioni ed emozioni indelebili.
E quando ogni anno accompagno i corridori ad allenarsi qualche giorno prima della maratona, molti mi chiedono cosa avessi provato nel tagliare per primo quel traguardo, che per tanti è simbolo di vittoria. Sulla linea d’arrivo termina la competizione, si riceve il premio, si raccolgono i riconoscimenti del pubblico e finalmente si allentano le tensioni, ma quasi mai il traguardo è il punto più particolare della corsa. I punti focali dove si è decisa la mia vittoria sono invece indietro di qualche chilometro rispetto alla “finish line”.
Nel 1984 la vittoria ha preso consistenza al 24° miglio, appena sotto la scalinata che porta al Reservoir: lì mi sono voltato indietro per l’ultima volta ed è stato dove ho deciso di non fermarmi più per bere, come avevo fatto nelle 5 miglia precedenti. L’anglo-americano David Murphy aveva recuperato ben 61 secondi del vantaggio che avevo al 30° chilometro, ed era dietro di me di soli 9”. Da lì fino alla Tavern on The Green sono riuscito a distanziarlo di ben 43”.
La vittoria nella maratona del 1985 ha invece preso consistenza all’altezza di un punto ben preciso: il 3° tombino sulla destra dopo il semaforo della 72^ strada. Lì inizia una leggera salita, e mi ero deciso ad attaccare il gibutiano Ahmed Saleh in quel punto, perché avevo notato in precedenza che tendeva a staccarsi quando si doveva spingere.
Ogni volta che corro in Central Park non penso solo a quando ho tagliato il traguardo; sono quei due punti speciali ad aver lasciato dentro di me sensazioni altrettanto particolari.
Nessun altro li distingue dal grigiore dell’asfalto con la mia stessa attenzione: essi risplendono solo per me.