Maggio. Adesso che tocca a noi

Maggio. Adesso che tocca a noi

24 Aprile, 2013

Righe riscritte al volo, al termine della notte.
Questo numero era già pronto per essere stampato quando le bombe hanno flagellato la maratona di Boston. Sulla contabilità del terrore, al momento in cui leggerete queste parole sarete più aggiornati di me. Io, in questa livida aurora di martedì 16 aprile sono fermo a tre morti, uno dei quali era un bambino che aspettava l’arrivo del padre in gara. I reporter stazionati davanti al Massachusetts General Hospital hanno raccontato che molti dei feriti sono arrivati mutilati.
Quando il cronometro posto sul traguardo indicava 4:09’ di corsa, la prima delle due iniziali esplosioni ha investito il pubblico che si trovava dalla parte delle transenne, a sinistra di chi corre.
Il mio primo pensiero: io sarei stato lì, perché quando ho seguito la maratona di Boston lì mi sono messo, dalla parte opposta rispetto alla biblioteca e alla tribuna stampa, tra quella siepe di bandiere da dove si riesce a urlare qualcosa ai maratoneti che arrivano, una sorta di involontaria zona mista, ottima per addetti ai lavori. Il mio primo ricordo: il concerto di fruscio dei teli termici, che una volta abbandonati dagli atleti, libravano sospesi in aria agli ordini del vento, la danza irrazionale e bella del sacchetto di plastica di American Beauty.
Ho controllato come sempre il numero che vi accingete a leggere e mi sento quasi in dovere di scusarmi, per la tanta morte che contiene: quella del mio amico Pietro Mennea, nelle parole di Franco Fava all’altro estremo della rivista, quella del calciatore-runner Paolo Ponzo, che anni fa intervistammo, nel dialogo tra Orlando Pizzolato e i lettori su quanto accaduto alla Maremontana. Ci siamo impigliati nella cronaca, ma sentivamo il dovere di farlo. Credo non vi stupisca e che sappiate che anche questa libertà dalla superstizione del sorriso sempre, a ogni costo, faccia parte del nostro modo di lavorare.
Assume così un ruolo anche simbolico il fatto che proprio da questo numero prenda vita American Roads, le pagine in cui Julia Jones ci condurrà, stato per stato, a conoscere la cultura della corsa nella patria della corsa, che è anche la sua patria.
Perché di simboli si tratta, e la corsa lo è diventato. Alle grandi maratone c’è tanto pubblico e ci sono le televisioni del mondo, e questo è sufficiente per diventare un bersaglio. Ma c’è anche un’energia di dialogo che non piace a nessun destabilizzatore, specie quando se ne fanno portatrici le donne, così libere, così felici.
Non piace in ogni caso, che si tratti di Al Qaeda, o dei “suprematisti” bianchi, eredi del Ku Klux Klan, cui il presidente nero vuole impedire l’uso libero delle armi e che avrebbero posizionato il tutto nell’ultimo chilometro di gara, perché era dedicato ai morti della strage di Newtown, nel Connecticut, ennesimo risultato dell’hobby pistolero.