Steve Prefontaine è stato il più grande mezzofondista americano, deteneva tutti i record nazionali dalle 2 miglia ai 10 km. Se l’è portato via un incidente stradale quando non aveva ancora 25 anni, ma a quell’età era già diventato l’idolo dell’Hayward Field. Accendeva le folle come accendeva le gare: sempre in testa, sempre a tutta. Non aveva paura di nessuno e non sopportava gli attendismi tattici: se ne hai, vai. “Dare qualcosa meno del tuo massimo significa sacrificare il Dono”, una delle sue frasi più celebri, ripetuta ancora oggi come un mantra da fan di tutto il mondo.
Quando correvo “seriamente” non sono mai stata una fanatica di ciò che circondava l’atletica ma esulava dal mio percorso personale: sarà che internet era meno diffuso, ma non passavo pomeriggi a spulciare graduatorie e risultati delle avversarie, non mi inebetivo davanti a video motivazionali, non leggevo biografie dei campioni per cercare assonanze con la mia storia. Correvo e basta, sentendomi sempre un po’ in difetto, e per questo evitando di cercare articoli su di me o storie del passato che potessero mitizzare il mio passatempo.
Prefontaine l’ho scoperto tardi, lo ammetto. L’ho scoperto quando la corsa ha smesso di essere un assillo orientato alla meta e ho iniziato invece a godermi il viaggio. Quella di Pre è una storia che ti entra nelle ossa, inevitabile chiedersi dove sarebbe arrivato se la sua carriera fosse durata almeno altri 5 anni, invece che finire sul più bello. Nel 2015 saranno passati 40 anni dalla notte in cui morì schiacciato dalla sua stessa auto, lungo i saliscendi di Skyline Boulevard, a pochi passi dall’università e dal campo di gara. La roccia contro cui si infransero i sogni della più grande leggenda dell’atletica è ancora oggi meta di pellegrinaggio obbligato, non soltanto per i turisti appassionati di sport, ma anche e soprattutto per la gente di Eugene che, mi piace fantasticare, forse da giovane ha avuto l’onore di incoraggiarlo dal vivo. La “mia gente”, amava definirla Pre. Rimaniamo un attimo in tema di suggestioni, concedetemelo. Quando in questi giorni, accucciata a bordo pista all’interno dell’Hayward Field, guardavo le tribune gremite di pubblico competente, da un momento all’altro mi aspettavo si alzasse il coro “Go Pre! Go Pre!”, come tante volte capitato a cavallo degli anni ’70. Ovviamente non è successo, il tifo è diverso e gli atleti sono cambiati: non c’è più (o non c’è ancora? Rupp, Cain, fatevi sotto…) nessuno in grado di trascinare le folle come faceva Pre. Era un tifo da stadio, il suo. Da stadio calcistico, per intenderci, visto che in Italia quella del pallone è l’unica metafora che renda l’idea, purtroppo.
Sono passati quasi 40 anni, è vero, e sugli spalti dell’Hayward Field non si sente più gridare il nome di Pre. Il suo ricordo è ancora vivo, però, e mi piace pensare che l’anziano incontrato a fare jogging lungo Skyline Boulevard sia stato uno dei suoi fan più sfegatati, lui che lo saluta ancora, tutti i giorni, con un cenno del capo quando passa correndo davanti alla Pre’s Rock. Ed è così che, in fondo, Pre non ci ha lasciati.