Potremmo trovarci dinnanzi a una nuova categoria di soggetti: persone che, grazie all’attività fisica, non sono sovrappeso, ma che “funzionano” come degli obesi dal punto di vista psicologico e cerebrale. È questo il tema affrontato da Pietro Trabucchi su Correre di agosto.
Quella confusione tra le sensazioni
Il nostro esperto di psicologia dello sport ci spiega che la regolazione del senso di fame e di sazietà non avviene nello stomaco ma, al contrario, nei centri cerebrali. Il cervello dell’obeso è caratterizzato dal fatto di essere poco sensibile alle informazioni interne che guidano la fame (glicemia, livello di leptina, livello di accumulo adiposo eccetera) e ipersensibile ai dati esterni: appetibilità del cibo in termini visivi, contesto sociale, abitudini, eventi interpersonali. Ma, soprattutto, il soggetto obeso sembra confondere certi stati emozionali (ansia, depressione, timore) con la sensazione di fame.
“Nulla di nuovo sotto il sole – precisa Trabucchi-. Tutti abbiamo aperto ansiosamente la porta del frigo quando la fidanzata li ha lasciati o affogato nella cioccolata le delusioni lavorative. Del resto è noto che eventi stressanti producano modificazioni nel senso di sazietà. Se per la maggioranza di noi questi comportamenti sono occasionali, per gli obesi sembrano rappresentare la norma: a livello profondo loro non hanno imparato a distinguere tra sensazioni interne legate alla fame ed emozioni.”
Un tentativo di autoguarigione
Lo studioso ricorda poi che “Nelle celebri scimmie di Harlow, separate dalla mamma alla nascita, la privazione di contatti fisici impediva la formazione di circuiti nervosi particolari, che agiscono sui centri cerebrali con funzione inibitoria, di “stop”. L’animale che ha ricevuto sufficienti cure parentali in termini di contatto fisico impara a regolare meglio i centri della sazietà. Se questi circuiti invece non si formano, per scarsa o inadeguata stimolazione, l’animale deve mangiare continuamente per tranquillizzarsi. Questa è la base biochimica del famigerato collegamento tra il sentirsi giù e spalancare il frigorifero”.
Ma tutto questo cosa c’entra con la corsa?
“Sulla scorta di una serie di studi molto interessanti sul cervello – prosegue Trabucchi-, si potrebbe azzardare un’ulteriore ipotesi che vede la corsa essere per costoro come un tentativo inconsapevole di autoguarigione, una forma surrogata del contatto fisico che non hanno avuto”.
Nota: Questo testo rappresenta una sintesi del servizio “L’obeso mascherato”, di Pietro Trabucchi, pubblicato su Correre n. 418, agosto 2019 (in edicola a inizio mese), alle pagine 60-61.