Antonio La Torre e il ruolo dell’allenatore

Antonio La Torre e il ruolo dell’allenatore

25 Novembre, 2023
Foto Grana/FIDAL

In vista del suo intervento d’apertura alla Masterclass di Correre del prossimo 2 dicembre, abbiamo chiesto ad Antonio La Torre, direttore tecnico delle squadre nazionali Fidal, quali possano essere i requisiti fondamentali per allenare, ad alto livello come nel mondo amatoriale

Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”, canta Francesco De Gregori ne “La leva calcistica della classe ‘68”. E un allenatore da cosa lo si vede? C’è un’attitudine, una predisposizione, qualcosa che in un atleta ci possa far dire “Dopo, diventerà un buon allenatore”?

In vista del suo intervento d’apertura alla Masterclass di Correre del prossimo 2 dicembre, abbiamo rivolto questa domanda ad Antonio La Torre, direttore tecnico delle squadre nazionali Fidal. Ne è uscita una chiacchierata sui requisiti necessari ad allenare, ad alto livello come nel mondo amatoriale, che comincia dalla prudente risposta a quella domanda.

«Difficile dirlo. D’istinto risponderei per esclusione: non vedo allenatori nei grandi predestinati, intesi come gli atleti che hanno un posto nella storia principalmente grazie al proprio straordinario talento: non allena Carl Lewis, Michel Jordan ci ha provato, ma con risultati modesti, il Maradona allenatore fa fatica a entrare nei ricordi. I Klopp, i Mourinho, i Sacchi, invece, facciamo fatica a sapere cos’abbiano fatto da calciatori. Poi ci sono le eccezioni, certo, come Roberto Mancini. La sintetizziamo brutalmente? La gloria che si vive da atleta ti porta il più delle volte a concentrarti troppo sul tuo ombelico. L’allenatore, invece, è quell’atleta che per tempo alza gli occhi dall’ombelico e impara a guardarsi intorno, sempre. Ecco: se c’è una caratteristica che una persona deve avere per poter pensare di diventare un giorno un bravo allenatore, è la curiosità: per quello che accade, per la natura delle persone, per il lavoro degli altri.»

Pane e stress

«La seconda caratteristica è la consapevolezza – prosegue il “Cittì” azzurro -: devi accettare che l’allenatore è un mestiere, a qualsiasi livello tu lo voglia praticare. Uno di quei mestieri, però, in cui non si timbra mai il cartellino. E ve lo dice uno che le ossa se l’è fatte alla Breda, dove il cartellino lo si timbrava tutti i giorni, in ingresso e in uscita. Vado orgoglioso di quel passato, ma ricordo che vivevo quel timbrare come una costrizione. Dopo l’ho rimpianto tante volte, tutte le volte che non ho dormito per un allenamento che non era venuto come volevo. Vuoi davvero diventare un allenatore? Devi essere consapevole che ogni mattina, a colazione, prenderai una fetta di pane e ci spalmerai sopra lo stress al posto della Nutella, e dovrai fartelo piacere

Qual è il ruolo dell’esperienza? Più di una volta un allenatore è stato accusato di aver “rovinato” un atleta facendogli seguire metodo e programmi che erano risultati efficaci con altri in precedenza…

«Magari da fuori sembra così, ma non credo che si applichi pedissequamente ad altri un programma ragionato nel dettaglio per un determinato campione. Questo rischio di ripetere, però, è sempre dietro l’angolo. Viene naturale fare rifermento a ciò che ha funzionato, una sorta di “squadra che vince non si cambia”, ma è il primo errore da evitare.

Ricordo che quando allenavo Ivano Brugnetti (Campione olimpico di 20 km di marcia, Atene 2004, ndr), sono arrivato al punto che i quaderni con gli allenamenti e gli appunti, alla fine di una stagione li rileggevo tutti e poi li buttavo via, proprio per non essere indotto a replicare i programmi nella stagione nuova. L’atleta è una persona, e come tale matura, evolve o semplicemente cambia e non è mai uguale a quel sé stesso che abbiamo allenato l’anno prima. Questo è forse l’aspetto più impegnativo da affrontare, perché a certi livelli quello che si instaura tra allenare e atleta diventa come una seconda famiglia, con le inevitabili crisi, che poi il più delle volte si impara a superare.

Nella mia storia tecnica, ma soprattutto umana con Ivano Brugnetti c’è un episodio indelebile: mi rivedo mentre lo seguo in un allenamento che proprio non veniva come volevo, in un periodo non facile. A un certo punto gli dico di fermarsi, scendo dalla bici e in preda alla rabbia la sollevo e la scaravento via, gettandola involontariamente verso di lui, che per fortuna si scansa. Ivano non dice niente, mi gira le spalle e riprende a marciare da solo, alla velocità della luce. Alla sera una lunga chiacchierata, che ha dato il via a una delle stagioni migliori del nostro lavoro.»

«Vedo che ultimamente i cambi di allenatore trovano ampio spazio sui Media, ma credetemi: la vera notizia è un sodalizio che dura.»

Dai curriculum degli allenatori degli atleti di punta emergono spesso “pregresse” competenze specifiche in campi come, ad esempio, la biomeccanica o la fisiologia. Cosa è utile che l’aspirante allenatore approfondisca?

«Sono molte le materie utili ad allenare meglio: la biomeccanica, senz’altro; poi la fisiologia che, a maggior ragione nell’endurance, aiuta a comprendere tanti aspetti del motore umano sotto sforzo prolungato e le difficoltà che l’atleta può incontrare, ma anche le scienze nutrizionali è opportuno conoscerle. Attenzione, però: lo studiare dell’allenatore non può avere l’obiettivo di sostituirsi al medico, all’ortopedico, al nutrizionista o al fisioterapista. È praticamente impossibile ed è soprattutto concettualmente sbagliato. Su questo aspetto invito tutti a fare attenzione, a non sottovalutare la complessità e l’estensione delle materie. Già negli argomenti più di pertinenza del coach noto a volte, purtroppo, leggerezza: stai parlando di lavori intervallati? Di capacità lattacida? Ti sei letto almeno 150 ricerche serie sull’argomento?

La maggiore conoscenza delle materie collegate all’allenamento è utile a fare dell’allenatore un interlocutore migliore nel dialogo con questi specialisti, perché disporrà di un linguaggio che gli permetterà di fare tesoro di quei dialoghi, ma le analisi e le diagnosi devono arrivare da loro, da chi ha fatto di quelle materie il proprio mestiere. 

Dai Giochi di Tokyo in poi, l’opinione pubblica ha preso atto che ormai dietro un grande atleta c’è uno staff di specialisti e che l’allenatore agisce più spesso come un direttore d’orchestra che non come un solista, un “virtuoso” dell’allenamento. Certo, chi allena per passione agisce in ambienti e in una dimensione diversi, dove non ci si può certo permettere lo staff di Jacobs, ma si può trascinare nella propria passione medici e nutrizionisti che amano la corsa, ad esempio. Basta guardare nella nostra storia: quante volte un componente lo staff medico della nostra nazionale era stato atleta in gioventù.»

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