A mettere in fila gli spunti offerti dalle principali corse del fine settimana, ci si ritrova prigionieri della rassegnazione: noi italiani non cambieremo mai. Nemmeno noi che scriviamo di running. Alla mezza maratona di Genova si è verificato il pasticcio dell’auto di testa, quella con il cronometro, che ha ostacolato il ruandese Eric Sebahire lanciato verso la vittoria? Noi ci facciamo il titolo, pescando l’unico neo organizzativo presente nella cronaca di Michele Marescalchi, che per il resto descrive un’onesta organizzazione. Poi, però, a Londra, tutt’altra dimensione e, soprattutto, tutt’altro budget, la campionessa olimpica Tiki Gelana va a sbattere in corsa contro la carrozzina di un atleta diversamente abile, che inavvertitamente le taglia la strada, senza che nessuno dell’organizzazione possa o riesca a intervenire. Trovate per caso il fatto citato nel titolo del testo di Diego Sampaolo? Per inciso, quella della prova disabili che si sovrappone alla gara maggiore è una vecchia “pecca” della gioiosa macchina da guerra londinese, fin dai tempi di David Bedford alla regia. Ricordo il memorabile arrivo in volata del 2008, quando Lel batté Wanjiru negli ultimi 200 metri sostanzialmente perché fu più bravo nello slalom tra le ruote dei diversamente abili. Prima o poi ci scapperà il contuso. Ma noi non abbiamo titolato sul tamponamento della Gelana, storditi come siamo stati dal contenuto tecnico: il 3-2-1 tutto targato Londra di Prisca Jeptoo, terza nel 2012, argento ai Giochi, prima domenica 21 aprile con il micidiale 2:20’15”, la rimonta da film che ha riportato Tsegaye Kebede addosso a Emmanuel Mutai, che si era appena liberato a suon di contrattacco della resistenza di Stanley Biwott e già si vedeva in cima al podio, visto che mancavano meno di 2 km alla fine. E il tutto finendo in 2:06’03” e 2:06’34”, per gradire.
Perché Londra la guardiamo col nasino all’insu, e quasi non ci accorgiamo nemmeno che ad Amburgo, poco più a destra nella carta geografica dell’Europa, è ricomparso un fenomeno della pista: sono passati 10 anni da quando il diciottenne Eliud Kipchoge illuminò l’estate parigina del 2003 mettendo in fila El Guerrouj e Bekele nel 5.000 m dei Mondiali. Domenica il ventottenne Kipchoge ha vinto in 2:05’30”, non male per un debuttante. Chissà cosa potrà riservarci il suo collega iridato, oltre che olimpico, Mo Farah, che sempre domenica ha sostanzialmente gigioneggiato nella mezza, in attesa del raddoppio, nel 2014.
Eppure, se riavvolgiamo il nastro della Jeptoo, rivediamo il suo argento ai Mondiali di Daegu (2011), ancora più indietro osserviamo la consacrazione a Parigi, nella primavera dello stesso anno, ma se continuiamo a pigiare il rewind ce la ritroviamo, pressoché sconosciuta, vincere a Torino nel novembre 2010 e, nell’aprile precedente, raggiungere per seconda il traguardo di Padova. Non ho ricordi così precisi, ma quanti di noi, al puntuale comunicato di Diego Zilio, avranno all’epoca commentato: «Uffa, la solita keniota!». Anche in maratona e, più in generale nel running, l’erba del vicino è sempre più verde, specie se il vicino è ricco, famoso ma, soprattutto, straniero.