La gara femminile sulla distanza regina entrò nel programma olimpico nel 1984, a Los Angeles. Esordiente ai Giochi, mai maratona olimpica femminile espresse un poker d’assi d’uguale grandezza, nemmeno quando anni dopo keniote ed etiopi superarono Mediterraneo e oceani facendo ricche le tasche proprie e di procuratori e nobilitando tecnicamente un’applicazione motoria e una specialità divenute da tempo patrimonio universale.
Grete Waitz, nata Andersen, norvegese, 31 anni, caviglie d’acciaio, primatista mondiale sui 3.000 m nel 1975 e 1976, vincitrice sulla distanza nella Coppa del Mondo del 1977. Colse il primo successo a New York nel 1978, seme coltivato e recato magistralmente a maturazione nel 1979, nel 1980, nel 1982 e nel 1983, con l’esaltazione, sempre in quella stessa stagione, della conquista del titolo mondiale sulle strade di Helsinki, nella prima rassegna iridata dell’atletica e con la mirabile cornice di cinque affermazioni, tra il 1978 e il 1983, ai Campionati mondiali di cross.
Rosa Maria Mota Correja dos Santos, 26 anni, portoghese di Foz do Douro, debutto vincente in maratona agli Europei di Atene del 1982 dinanzi alla nostra Laura Fogli, conferma piena l’anno successivo a Rotterdam e Chicago.
Ingrid Kristiansen, norvegese, classe 1956, il sigillo londinese nell’aprile 1984 e due mesi dopo a Oslo, il 28 giugno, con 14’58”89 fu la prima atleta al mondo in grado di infrangere la barriera dei 15’ sui 5.000 m.
Joan Benoit, statunitense, 27 anni, dodicesimo impegno ufficiale sui 42.195 m, vittorie a Boston nel 1979 e nel 1983 con la migliore prestazione mondiale (2:22’43”) e i piedi a pezzi, ad Auckland nel 1980, a Eugene nel 1979 e 1982. Un’operazione al ginocchio destro il 25 aprile, l’uscita in stampelle dall’ospedale di Eugene, la ripresa in pochi giorni. Il 12 maggio alle selezioni statunitensi a Olympia, Stato di Washington, fu prima in 2:31’04” e proseguì con sedute settimanali dai 160 ai 200 km. Conduceva una vita spartana nelle gelide solitudini del Maine, con la compagnia di un cucciolo nero di Labrador e l’attesa di una collana da fidanzamento svedese.
Era il 5 agosto 1984, terzo giorno di gare, domenica, ore 8.07, inizio dal Santa Monica College, 50 atlete al via. Il televisore in tribuna stampa rivelò una partenza lentissima, 18’15” ai 5 km, l’allungo deciso di Benoit con il tratto successivo intermedio in 17’09”, il vantaggio progressivo della statunitense, una corsa morbida divenuta subito fatto privato, il passaggio ai 20 km in 1:08’32” e ai 30 km in 1:42’23”, con un minuto e mezzo su Grete Waitz; poi la leggera rimonta della norvegese, con un distacco che al traguardo del Memorial Coliseum venne registrato in 1’26”: Benoit 2:24’52”, Waitz 2:26’18”, Rosa Mota 2:26’57”, Ingrid Kristiansen 2:27’34”.
«La maratona olimpica è stato uno scherzo da ragazzi», dichiarerà poco dopo Joan Benoit in una delle rare interviste concesse. Solo a Giochi conclusi si accorgerà di essere l’unica medaglia d’oro “bianca” tra le sedici vinte in atletica dalla rappresentativa statunitense. Nei resoconti del giorno dopo, l’affermazione della ragazza del Maine patì la concorrenza di un’atleta classificatasi, in 2:48’42”, al trentasettesimo posto. Milioni di persone, appese ai televisori di mezzo mondo assistettero infatti al singolare calvario sul rettilineo di arrivo della svizzera Gabriela Schiess-Andersen: cappellino bianco, completo rosso, gamba e braccio sinistro immobili, il corpo preda di una sorta di anchilosi provocata dall’assenza di glicogeno nel sangue, la trentanovenne originaria del Cantone di Zurigo impiegò 5’44” per percorrere il tratto compreso dalla porta di Maratona all’arrivo, poco meno di 400 m. Nella lunga odissea, a settantasei anni di distanza, le tennero compagnia il fantasma e l’incubo incancellabile di un piccolo pasticciere di Carpi.