Nel mondo della corsa a piedi Pietro Mennea è stato l’italiano più veloce di sempre. Il suo famoso 19”72 nei 200 metri, ottenuto nel 1979 a Città del Messico, rimase record mondiale per 16 anni e 9 mesi ed è tuttora inarrivato come record europeo. Questa rimane ovviamente la più cantata delle sue tante prodezze sul lungo arco di una carriera favolosa, che lo vide impegnato in ben cinque edizioni dei Giochi olimpici, un vero prodigio di resistenza nel mondo delle corse brevi. Al di là delle perle della sua carriera – il suddetto record e la vittoria olimpica di Mosca ’80, sempre sui 200 m – crediamo che la prova più eclatante della sua resistenza alla velocità pura si possa trovare in una striscia di gare, tutte sui 200 m, che mise assieme nello stesso 1980 fra il 5 agosto e il 27 settembre, viaggiando attraverso il mondo, dall’Italia al Belgio, dal Giappone alla Cina: otto corse e altrettante vittorie, con una media di 20”07! Tale era la sua “condizione”, dopo tanti e intensi allenamenti sotto la guida severa ed efficiente del prof. Carlo Vittori. In quanto a impegni agonistici, resterà memorabile quanto Pietro seppe fare ai campionati europei del ’78 a Praga. Vinse a mani basse 100 e 200 m e contribuì al quinto posto della 4×100 azzurra e al settimo della 4×400. Assolvendo in quest’ultima il suo 10° impegno nel giro di sei giorni, corse la sua frazione in un fantastico 44”4. Ebbi la ventura di assistere alle gare di Praga. Le condizioni climatiche non erano affatto “mediterranee”, causa il freddo e la pioggia. A un certo punto un appassionato inglese seduto nella fila sopra la mia non poté trattenersi dall’esclamare: “They’re tough these Italians, aren’t they?” (sono tosti questi italiani, non vi sembra?). Rimanere nel giro dello sprint mondiale per quasi un ventennio, come fece Mennea, è un’impresa estremamente rara. Il celebre ranking mondiale della rivista americana “Track & Field News”, che ogni anno mette in fila i dieci migliori del mondo di ogni specialità sulla base del rendimento generale, lo ha visto fra i primi tre del mondo sui 200 m ben sette volte. Il suo intenso lavoro in ogni seduta di allenamento gli permise di avere in molte stagioni una condizione straordinaria, che lo portò fra l’altro a far bene anche nelle sue rare incursioni sui 400 metri (campione europeo indoor nel 1978 con 46”51). D’altronde questo pugliese era un uomo animato da una fortissima volontà in qualsiasi cosa scegliesse di cimentarsi. Anche al di fuori delle piste riuscì a “sfondare” in svariati settori. Pluri-laureato (scienze politiche, scienze motorie, giurisprudenza e lettere), ebbe un impegno politico al Parlamento europeo e specialmente negli anni più recenti si dimostrò disponibile a collaborare a progetti di solidarietà umana a vantaggio di persone meno fortunate. Di carattere piuttosto introverso, non sempre riuscì ad andar d’accordo con tutti. L’unico altro sprinter di valore mondiale che l’Italia abbia avuto, il suo predecessore Livio Berruti, era assai diverso da lui nella mentalità e, più in generale, nel modo di vivere.
Queste differenze, in parte enfatizzate dai “media”, furono probabilmente all’origine di un’aggressione tentata da alcuni “menneiani” a Formia nel 1979 proprio contro Berruti. Per fortuna ci furono dei benpensanti che seppero dividere i contendenti. Berruti era diverso dal suo successore in mille cose, per carattere e “modus vivendi”. Lui l’atletica la visse da dilettante, o quasi. In allenamento lavorò assiduamente solo nel 1960, il suo anno degli anni, quando conquistò sui 200 m l’oro olimpico e il record mondiale (20”5, tempo manuale). In seguito non forzò mai più di tanto, nel lavoro come nell’applicazione mentale. Anche nella vita, in generale, Berruti non è stato mai incline a forzare i tempi. Dai suoi successi atletici aveva ricavato poco o niente sul piano economico, operando quando il dilettantismo era ancora la regola, almeno nella maggior parte dei casi.
Mennea, invece, raggiunse la fama negli anni in cui il professionismo stava prendendo piede in modo sempre più evidente. (Ufficialmente l’Iaaf lo adotterà sotto la presidenza di Primo Nebiolo negli anni Ottanta). In definitiva crediamo di poter dire, in chiave non drammatica, che Mennea e Berruti erano così diversi, come mentalità e carattere, da porre un serio dilemma a quei pressappochisti che amano generalizzare con frasi tipo questa: “Sai come sono gli italiani? ” (un quesito spesso udito a proposito di tante altre nazionalità). Di Pietro Mennea, un campione in svariati settori della vita, restano molti cimeli preziosi. Non ultimi, fra questi, i numerosi libri da lui scritti, da solo come pure in collaborazione con giornalisti. C’è ad esempio il famoso “19”72”, che per gli appassionati di atletica dice tutto con il suo solo titolo. C’è poi “Velocità e mostri sacri”, in cui mette a fuoco stile, metodi di lavoro e personalità dei suoi massimi rivali nel corso degli anni. Fra questi ultimi, Valeriy Borzov era il suo preferito, ma Pietro riconosceva pure i meriti e la potenzialità di diversi altri. Molto interessante anche il libro “Mennea, la grande corsa”, scritto in collaborazione con Francesco Valitutti, ricco fra l’altro di molte belle foto.
Alla sua morte la stampa sportiva italiana, che di questi tempi è decisamente avara nel trattare temi di atletica, gli ha concesso un tributo adeguato. All’estero il celebre Times inglese gli ha dedicato per esteso un bel saluto.
Una carriera straordinaria la sua e assai ben documentata. Grazie Pietro, per tutto quanto hai fatto e ci hai lasciato come cimelio.