Psicologia: quando il dolore diventa un alibi

Psicologia: quando il dolore diventa un alibi

20 Aprile, 2017
(Foto: 123rf)

Non tutte le sofferenze fisiche di chi corre hanno delle basi oggettive. Chiunque corre finisce, infatti, per confrontarsi con due tipi di male fisico: quello causato dalla pratica sportiva e quello, ben più misterioso, che a volte compare durante la preparazione o nell’imminenza di una gara. Pur venendo percepiti nello stesso modo, questi tipi di dolore hanno cause diverse. A volte sono semplicemente il prodotto dell’ansia e servono a fornirci una scusa o a tenerci lontano da eventi agonistici che percepiamo come minacciosi per la nostra autostima.

È questo il ragionamento di base da cui parte Pietro Trabucchi per la sua analisi delle diverse cause di dolore che possono colpire il runner.

Il dolore del corpo del runner

Il primo tipo viene definito dolore atletico, dove la dicitura “atletico” fa riferimento alle cause che producono il male, ovvero alla pratica sportiva. Le maggiori responsabili della comparsa di dolore atletico nei runner sono le infiammazioni. Chi corre prova dolore a causa della distruzione delle fibre muscolari operata dalle sollecitazioni di migliaia di passi sull’asfalto, nella maratona e nell’ultramaratona, o perché ci si trova a praticare molta discesa, come nei trail.

Questo primo tipo di dolore non presenta grandi misteri. Le sue origini sono evidenti e in più presenta il vantaggio di poter essere controllato: ci si può cioè allenare a sentirlo di meno, oppure abituarsi a sopportarlo meglio innalzando così la soglia percettiva. Esistono infatti tecniche per il controllo del dolore all’interno di molti programmi di allenamento mentale.

Il dolore della mente del runner

L’altro tipo di dolore possiede invece una natura più subdola. Gli stati di angoscia modificano la percezione del dolore, portando a focalizzare l’attenzione in modo spasmodico su sensazioni normali del corpo che ne risultano ingigantite. Del resto è nota da decenni l’esistenza di un forte legame tra ansia e intensità della sofferenza: i soggetti ansiosi, in altre parole, possiedono una soglia del dolore più bassa della media.

La sensazione è inoltre legata alla percezione di controllabilità degli eventi: la stessa ferita fa molto meno male se io so esattamente cosa mi è successo, quali sono le conseguenze e se esistono soluzioni.

In queste circostanze l’ansia utilizza la sensazione di dolore per tenere lontano il soggetto da qualcosa che fa paura, come un impegno agonistico. Il dolore fornisce al soggetto una sorta di via d’uscita onorevole: un alibi in caso di performance inferiore alle aspettative o addirittura una scusa per evitare il mettersi in gioco.

Il male fornisce una scappatoia a troppa pressione agonistica, specialmente nei ragazzini: quando le pretese prestative dell’allenatore dei genitori sono esagerate può succedere che il bambino sviluppi dei dolori che gli impediscono di allenarsi o di gareggiare. Ciò non significa che siano inventati: il dolore esiste realmente, solo che si sviluppa in maniera in gran parte indipendente da quelle che sono le reali condizioni fisiche.

Di fronte a dolori non immediatamente riconducibili a una patologia evidente, il tecnico o lo stesso atleta dovrebbero utilizzare il buon senso: possono essere il segno di un disagio mentale, ma anche il frutto di accertamenti superficiali o errati.

Nota: Questo testo rappresenta una sintesi del servizio “Quando il male diventa un alibi”, di Pietro Trabucchi, pubblicato su Correre n. 391, maggio 2017 (in edicola da sabato 22 aprile), alle pagine 59 e 60.

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