Il giorno della notizia della morte di Annarita Sidoti su Facebook era un susseguirsi di status commemorativi e articoli in ricordo della grande, seppur piccola, marciatrice siciliana. Come sempre accade, ormai anche i lutti vivono in dimensione digitale.
Un intervento però mi ha toccato e colpito più degli altri. Sulla pagina Facebook del professor Pino Clemente ho trovato parole importanti che accompagnavano foto lontane, foto che raccontavano il gesto tecnico della marcia, gesto che Annarita eseguiva fin da bambina in modo esemplare.
Abbiamo contattato il professor Clemente e deciso di riproporre il suo contributo, parole che meritavano di non andare disperse nella rete.
«Nel 1988, alla tipografia Luxograf di via Bagolino a Palermo, dove era in fase di ultimazione il mio libro, “L’Atletica è Leggera”, arrivò via posta da Gioiosa Marea un plico. Peppino Giunta lo aveva aperto, i tempi stringevano: “Professore, hanno mandato la foto di una bambina che marcia”. ”È Annarita Sidoti” fu la mia risposta.
Era Annarita Sidoti.
Un mese e mezzo fa: “Zitti, fatemi parlare con il professore!”. Era tardo il pomeriggio, stavo al telefono con Anna in trepidante attesa delle buone notizie. In sottofondo il vociare di Federico, Eduardo e Alberto che non lasciavano per un solo attimo la mamma. ”La terapia continua, le cellule cattive sono ancora in azione. Io non mi arrendo“. Noi, allo stadio Vito Schifani, eravamo alle prese con i topi che corrono attorno alla pista, le zecche che volano e atterrano nello spogliatoio e con le problematiche dell’Educazione motoria nella scuola primaria.
Quella mattina è arrivata con il lutto, oggi i lutti arrivano via internet. Un’amica ha chiesto la conferma, come se fosse nella nostra “lira” la musica magica di Orfeo che, per non far sprofondare l’amata Euridice nell’Ade, il regno delle tenebre, fece ricorso alla nona corda. Euridice rivide la luce, nel Mito dell’eterno amore. Annarita, classe 1969!
A cento metri dalla via Pianell, dove abito, si trova via Musica d’Orfeo, con un misterioso graffito in corrispondenza della chiesa del Santissimo Salvatore, che si è trasferita nel Corso dei Mille. “Ai credenti non resta che pregare. A chi non ha il dono della fede, il pianto”. A chi, rifaremo nomi e cognomi, non ha gratificato Annarita Sidoti, non resta che il rimpianto tardivo e, speriamo, la presa di coscienza.
Partecipiamo al dolore della famiglia, siamo vicini a Pietro Strino, il marito di Anna, al nostro carissimo Prof Salvatore Coletta e a quanti hanno amato la donna e l’atleta, la sua tenacia, la sua semplicità, la sua sapienza. A piccoli frenetici passi nell’Olimpo iridato.»
Di seguito un’estrapolazione dal libro “Le scarpette chiodate“, che Pino Clemente scrisse nel 1997. Pagine che riguardano i Mondiali di Atene dello stesso anno, parole che ci fanno sprofondare in un tempo nel quale l’atletica italiana era ancora in salute, un coma vigile, sul quale nessuno vigilò abbastanza, forse proprio in questi anni iniziava lo scollamento tra i ragazzini e il nostro sport, una edizione dove comunque le prestazioni migliori erano venute dal settore femminile.
«Il podio dei mondiali di Atene, completo dei tre metalli, ha ribadito la svolta che caratterizza lo sport italiano: le donne, nei momenti più importanti dell’alto agonismo e in alcune discipline fondamentali, sanno battersi e imporsi come mai era accaduto. Gli Dei dell’atletica, nell’attesa di ospitare la seconda Olimpiade dell’era moderna, hanno deciso di premiare con una medaglia dal valore inestimabile la campionessa meno alta e più lieve di tutta la variegata popolazione dell’atletica leggera: Annarita Sidoti.
Dalla Sicilia, alla Val d’Aosta (l’argento della Brunet), alle complicate ascendenze della May, su quel podio è sintetizzata l’ascesa dell’atletica femminile che si avvicina al duemila con ambizioni potenziate. L’oro della cittadina che ha reso famoso il paesino di San Giorgio ha contribuito in misura preponderante a salvare la faccia all’atletica italiana, promuovendo con tempestività l’immagine della Sicilia che soffriva il travaglio dell’Universiade. La campionessa meno pesante della popolazione atletica di caratura mondiale ha dominato dal primo all’ultimo metro la sua gara: le avversarie (a parte la squalificata Stankina) sono state frullate da quel vortice inarrestabile di passi frenetici.
La vittoria ateniese della Sidoti, dobbiamo ammetterlo con chiarezza, non era nelle aspettative: l’allieva del prof. Coletta era la riserva del quartetto, mentalmente si preparava per la gara dell’Universiade; solo il perdurare dell’infortunio della Giordano le ha spianato la via. Altri settori in tempi non lontani hanno bluffato, presentando campioni malandati destinati a ritiri ingloriosi; sotto questo aspetto il gruppo dei marciatori è da proporre come esempio. In nessun momento la Sidoti o Coletta contestarono l’esclusione dai Mondiali e il senno del poi ci dice quanto fosse sbagliata questa rassegnazione. La Sidoti in almeno un’occasione era stata invincibile: nella 10 km. di Sesto; nessuno aveva puntato sulle potenzialità della siciliana, né si era tenuto conto delle condizioni ambientali (i 30 gradi maggiorati dall’evaporazione del manto gommoso).
Dunque una medaglia d’oro, l’unica italiana, che è stata favorita dalla casualità, anche se i tecnici nazionali responsabili del tacco e punta lasciano intendere velatamente che… ha vinto la quarta della squadra. Il futuro prossimo ci darà indicazioni più precise, a patto che Anna non si appaghi, inconsciamente, dell’inaspettato alloro, continuando nella sua marcia trionfale la dote della donzella sarà solo di poco inferiore alle riconosciute doti. La neo campionessa mondiale entra con ogni probabilità nel guinness dei primati: Loro Altezze sono state castigate. In una sfera di spietato agonismo che emargina i meno alti e premia soltanto gli “anabolizzati”, la Sidoti lancia un messaggio di speranza: la piccoletta dal grandissimo cuore può vincere, anche contro chi usa armi improprie ingiuriando il proprio nome, come Olimpiade Ivanova la russa rivale irriducibile (o quasi) incappata nella rete dell’antidoping per uso di stanazolo (l’ormone caro a Ben Johnson).
Maurizio Damilano ricordava un solo marciatore scoperto in fallo di anabolizzanti nel ‘74, ma non si deve sottostimare l’apporto degli ormoni maschili sintetici (che inducono un aumento della forza) nell’organismo femminile. Opportunamente dosati gli anabolizzanti stimolano la crescita muscolare, hanno un effetto positivo sull’aumento dei globuli rossi (crasi ematica) ed eccitano all’aggressività. Nel ‘79 alcune mezzofondiste fra le migliori al mondo risultarono positive (per anabolizzanti): fra queste la medaglia di bronzo dell’Universiade di Città dei Messico Natalia Maracescu, che avrebbe dovuto restituire il bronzo ad un’atleta italiana, ma chi si prese la briga di rendere giustizia? Carissime Sidoti, Brunet e colleghe azzurre in quell’epoca inquinata era un’impresa disperata battere le atlete più quotate (una caterva) dell’ex Urss, dell’ex DDR, della Romania e della Bulgaria. Se rimpinziamo della quota di ormoni maschili che fisiologicamente le difetta una fortissima atleta, costruiamo il fenomeno di Laboratorio. Il tempo di 8’27” della russa Bragina nei 3.000 m nel lontano 1976 deve far riflettere, come l’assalto furibondo dell’armata cinese al muro degli 8’ ed il 29’31” nei 10.000 m nel ‘92.
Ribadisco le raccapriccianti affermazioni di notissimi personaggi dello sport italiano e mondiale che interpretavano la “sindrome cinese” dell’epoca come un fatto evolutivo o quasi scontato, un prodotto selettivo di quella enorme marea umana. Sospetti? Nessuno. Cosi va il mondo quando: o si ha la coda di paglia, o si trae popolarità dal recordismo. L’atletica che esalta gli schemi motori di base è uno sport dove c’è ancora spazio per la diversità antropometrica: sono ai vertici del mondo la discobola di etnia Maori Famoulina (1,80 m x 116 kg), la pesista tedesca Kubernuss (1,89 m) e Anna (un… pelino meno di 1,50 m). A ciascuna il suo.
Com’è possibile che un’atleta di proporzioni cosi modeste, sebbene aggraziate, riesca a primeggiare contro rivali ben più possenti? La preliminare considerazione riguarda il rapporto fra quel piccolo essenziale muscolo — pompa centrale aspirante e premente della corrente sanguigna il cuore — e la superficie corporea della nostra Annarita. Il cuore della Sidoti, ben cavo, elastico, dai battiti lenti ma capace di espellere ad ogni gittata (sia a riposo, sia sotto sforzo) una grande quantità di sangue per irrorare e nutrire di ossigeno i muscoli impegnati in uno sforzo di durata, alimenta una superficie corporea dalle dimensioni ridotte.
Il motore è potente, la carrozzeria è relativamente leggera; questo rapporto ottimale andrebbe verificato da test specialistici (coefficiente fra cuore e soma). La fragilità dell’ex assessore è solo apparente: l’esiguità della silhouette si risolve in prospettiva bioenergetica vantaggiosa (minore “dispendio” se paragonato a quello di atlete più corpulente). Una macchina umana idonea a durare nella fatica, ma una centrale dei comandi nervosi che nelle frequenze esprime rapidità da velocista: è questa la tipicità rara dell’allieva del prof. Salvatore Coletta. La Sidoti è una longilinea (la lunghezza delle gambe prevale su quella del busto) ma l’ampiezza del suo passo è ridotta, soprattutto se confrontata con quella dalle gambe più lunghe delle sue avversarie; ecco la straordinario del talento: capacità coordinative di un sprinter, frequenze impressionanti e una conseguente elasticità (e quindi reattività) muscolare, potenza aerobica ottimale e tecnica perfetta.»
*Pino Clemente: laureato in Farmacia, diplomato Isef, insegnante di Educazione Fisica, docente all’Isef e a Scienze Motorie di Palermo dal 1966 al 2007, pubblicista dal 1959. Ha scritto: L’Atletica Leggera (1987), L’Atletica è Leggera (1988), La Scienza e l’Arte dell’Allenamento (2002), i tre libri de Le scarpette Chiodate (1991-2005), con Vittorio Di Simone Lo Sport siamo noi (2006), con Sergio Giuntini La Storia dell’Atletica Siciliana, dai Miti Eraclei al 2006 (2012), con Mauro Leonardi L’Ultimo Sciamano, storia di Franco Bettella (2015).
È stato un buon velocista negli anni Sessanta e uno dei tecnici più illuminati nel nostro Paese, portando Margherita Gargano alla partecipazione olimpica a Montreal ’76, tra i primi a credere che le donne potevano correre distanze lunghe, ben oltre i 3.000 m, ultima delle gare femminili in pista fino a pochi decenni fa.
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