E’ un mondiale dove i pronostici non sono confermati. Scritto e riscritto, ma sabato sera si è arrivati a toccare il punto più alto. Il che ha quasi dell’incredibile. Tutta la penultima serata del mondiale era incentrata sull’ultima volata di Usain Bolt nella staffetta 4×100 e quella di Mo Farah nei 5000.
Il programma prevedeva per primo la prova più lunga, la staffetta veloce alla fine, come il dolce dopo un lauto pasto. Tutto lo stadio olimpico per Mo Farah. Un urlo continuo dal primo all’ultimo metro. La prova sulla carta doveva essere il suggello di una grande carriera del somalo arrivato nella terra d’Albione a cinque anni. Invece, dopo la vittoria nei 10 mila con un finale e un crono di assoluto livello, questa volta l’esile uomo del mezzofondo e fondo inglese è stato battuto dopo una gara lenta, eccetto l’ultimo mille percorso in 2’21”04 da Mukhtar Edris. Non un carneade qualsiasi. L’atleta di lingua amarica, colonia Demadonna, viene spesso in Italia a gareggiare, è capace di 12’54”83 nei 5000 ed ha grande feeling con il cross, è stato bronzo nel mondiale cinese (Guyang 2015) e ha vinto la Cinque Mulini, un mese prima. Nel suo palmares anche un oro a Barcellona nel 2011 (mondiale juniores).
Dicevamo della gara lenta, lo testimoniano i passaggi al 1000 in 2’48”14 e ai 3000 8’32”. Ci si attendeva la volata finale di Farah, di quelle che lasciano il segno, invece a un giro dalla fine c’è stato l’attacco di Kejelcha, Farah non è parso brillante come in altre occasioni, in dirittura d’arrivo si è fatto chiudere da Edris che era già al comando, l’altro etiope Kejelcha e lo yankee, si fa per dire, Chelimo. Risultato: Farah costretto a passare all’interno negli ultimi metri e alla fine è solo argento, tra lo stupore del pubblico e la tristezza dello stesso protagonista che non perdeva una finale mondiale o olimpica dal 2011 (Daegu), quando nei 10 mila per mano dell’etiope Jelan.
Dopo l’atteso successo Usa nella 4×100 donne con il ritorno di Tori Bowie in ultima frazione, l’attenzione era per l’ultimo assolo di violino del più grande violinista di tutti in tempi: Usain Bolt. Già di mattino c’era stata la prova d’orchestra, con Usain in ultima frazione conclusa in 37”95. La Giamaica non aveva schierato né Blake e neppure Mc Leod lasciandoli per la finale. Bolt aveva fatto la sua gara. L’attesa per la finalissima era altissima. Gli Usa favoriti con Gatlin e Coleman i britannici con una formazione molto compatta e i caraibici. E’ finita che all’ultimo cambio, Bolt parte terzo, ha davanti Coleman e Gemili, prende il testimone e si lancia in un disperato inseguimento, interrotto dopo una ventina di metri da un insulto al bicipite femorale sinistro, Bolt pare inciampi, fa un paio di passi di corsa su di un piede solo, poi si accascia a terra. Fine della corsa. Vince la Gran Bretagna 37”47, sugli Usa 37”52 e il Giappone 38”04. Un finale scritto da uno sceneggiatore di storie non ha lieto fine. Un finale triste.
ITALIA
In attesa che la “santa marcia” porti un po’ di gioia e serenità tra le nostre fila, magari con una medaglia, sia pur piccola (bronzo), ci consentirebbe di evitare il celeberrimo “zero tituli” di mouriniana memoria. Qualora arrivasse e anche fossero due o tre, la nostra opinione sulla spedizione azzurra non cambierebbe. Un vero e proprio sfacelo, come a Pechino 2015, ribadito a Rio lo scorso anno e confermato a Londra. Ieri, intanto l’attesa 4×400 donne non ha centrato la finale per un nonnulla (3’26”81 delle azzurre contro il 3’27”59 della Francia). Il quartetto azzurro ha fornito una prestazione mediocre, incolore, senza determinazione, specie nella capitana Libania Grenot. Quest’ultima (anno sabbatico il suo) sventolato a più riprese ai quattro venti, non aveva provato in gara un 400 nel corso dell’anno. La dimostrazione si è avuta nella sua frazione che ha condotto bene per 250 metri, poi la desuetudine alle competizioni si è palesata e Libania è scivolata irrimediabilmente dietro una polacca. Mancava ancora una frazione e di certo Ayomide Folorunso non poteva fare il miracolo, pure lei sotto la linea della sufficienza, mentre meno opache sono sembrate Chigbolu e Spacca le prime due frazioniste. Lasciamo correre le considerazioni finali ai microfoni Rai della Italo/cubana Libania Grenot, un inno all’incongruenza, sostenendo di essere contenta del risultato. L’Italia atletica in pista non si è vista assolutamente. Zero assoluto. Margini dell’Impero. Melodramma italico. Questi titoli o incipt apparsi qua e là, sui siti web o quotidiani. Ci resta il martellista Marco Lingua, fuori dall’elite della federazione, uno che fa l’atletica per hobby.