Dopo una magnifica stagione su pista, la corsa vive ora uno sfolgorante autunno di grandi risultati e duelli in maratona. Berlino, col record mondiale femminile di Tigist Assefa, poi Chicago, con quello maschile di Kelvin Kiptum, e quindi New York, con la sontuosa parata di Tamirat Tola e la sfida collettiva che ha caratterizzato la gara femminile (nella foto).
Eppure, nella comunicazione del nostro settore, ma soprattutto in quella rivolta alla stampa generica, l’impressione è che a vincere siano più le scarpe che non i corridori che le utilizzano.
Riporto un messaggio whatsapp di un collega: “A Chicago, vedrai, arriverà la risposta-rivincita della Nike”, dove “risposta-rivincita” era riferito, come accennato, al record mondiale tutto Adidas di Tigist Assefa a Berlino (2:11’53”), proprio nei giorni in cui l’azienda tedesca di Herzogenaurach stava lanciando le Adizero Adios Pro Evo 1 (500 dollari al paio).
E “risposta-rivincita” è stata: Kelvin Kiptum ha portato il record mondiale maschile a 2:00’35” calzando un prototipo dell’azienda di Beaverton provvisoriamente denominato “Dave 163” (scusi, World Athletics, ma in gara non si dovevano utilizzare modelli disponibili per tutti già da almeno quattro mesi?).
A riportare il rapporto al suo naturale equilibrio tra scarpa iper-tecnologica e atlete e atleti di livello mai visto prima ci pensa, su Correre di novembre, il fondamentale servizio di Filippo Pavesi, che in questo numero fa il punto su come valutare il consumo delle scarpe da running togliendo l’atavica certezza che “le scarpe non durano più come quelle di una volta: “Le scarpe meno resistenti – scrive Pavesi – hanno dimostrato di durare solo 160 km, mentre le scarpe più resistenti sono arrivate addirittura oltre ai 1.600 km. Pertanto, fra la durata dell’ammortizzazione di due scarpe ci può essere una differenza di addirittura 10 volte!”
… e io, podista acquirente, come faccio a capire se sto per comprare una “centosessanta”, magari da centinaia di euro, o una “milleseicento”? Sulla scatola, accanto alla misura, non è riportata la durata (anche perché implicherebbe una garanzia).
La faccenda si fa particolarmente complessa per quei tanti appassionati, lontani dai riflettori e dal bombardamento mediatico, che gli euro per le nuove scarpe devono accantonarli salvandoli dagli agguati della caro-vita. Ne ho avuto testimonianza durante una recente chiacchierata con un allenatore e titolare di un negozio running, un vero esperto di calzature, con precedenti esperienze nelle aziende del settore, che mi ha portato l’esempio di un suo cliente: «Era tanto che non lo vedevo, avevo addirittura pensato che avesse smesso di correre o si fosse fatto male. Come al solito gli ho chiesto di mostrarmi le scarpe usate fino a quel momento: la suola praticamente non c’era più, l’aveva consumata fino in fondo. Si è giustificato dicendo che non può permettersi di cambiare calzature ogni sei mesi.»
Buona lettura, dunque, con Correre di novembre.