Siamo ormai tutti d’accordo sul ruolo che la mente riveste nelle performance sportive. Nella corsa su lunghe distanze, poi, abbiamo capito che più aumenta la distanza più cresce il ruolo del cervello nel superare le difficoltà generate dai tanti chilometri. Per questo è importante allenare la mente.
Questa consapevolezza che il fattore mentale sia fondamentale nelle ultramaratone non è una conquista di poco conto: allenatori e atleti hanno ormai capito che pensieri e biochimica coesistono, si intrecciano e si condizionano vicendevolmente.
Poi, però, cosa accade in concreto? Che si continuano a proporre piani di allenamento impostati solo sul corpo, cioè sull’obiettivo di raggiungimento della condizione fisica, senza tenere conto delle esigenze della mente.
Venti-trent’anni fa l’atleta correva con il corpo e pensava ad altro, poi si rilassava o allenava la mente con il corpo immobile. La svolta invece consiste nel dare vita a un tipo di preparazione che si rivolga contemporaneamente all’aspetto atletico e a quello mentale. Superare le crisi metaboliche, gestire la fatica, fronteggiare il dolore atletico, sono tutte capacità che si imparano e si possono migliorare.
Allenare la mente: “l’oro” dell’atleta
Ma come si fa ad allenare la mente? Di solito ci si basa sull’esperienza: una volta affrontate le prime crisi metaboliche, l’atleta sensibile ripensa alle difficoltà con cui è entrato in contatto, cerca di imparare sia dagli episodi positivi sia da quelli negativi e dopo, in qualche modo, si sente in grado di gestirsi quando il fenomeno si ripeterà. Sa che, quando succederà, potrà fare in quel modo, o in quell’altro. L’atleta quindi, dopo un po’ di anni, a forza di prove ed errori, mette insieme un certo numero di strategie mentali, di procedure e di prassi per gestire le difficoltà della gara.
Questo è quello che noi definiamo “l’oro” dell’atleta. Perché quello che ha imparato per esperienza diretta, in momenti emotivamente salienti, si fissa in modo indelebile nel cervello; e se lì è stato in grado realmente di trovare una soluzione efficace, potrà farvi ricorso per tutta la carriera in ogni momento analogo. Invece, tutto quello che sono le stimolazioni verbali del tecnico, degli spettatori, dei compagni (“Dai, non mollare!”) o le tecniche della psicologia di estrazione sedentaria (“Quando non ce la fai più, pensa positivo!”) non riescono a incidere sulla prestazione.
La presenza di emozioni, durante un’esperienza, garantisce la registrazione profonda degli apprendimenti. Quello che si impara in presenza di un coinvolgimento emotivo profondo non lo si scorda più. Attenzione: per “emozioni” si intende vivere uno stato emozionalmente intenso, di interesse, di attenzione, qualcosa che va oltre la constatazione della presenza dentro di noi di un’emozione primaria (dove “primaria” significa sentirsi tristi, arrabbiati, innamorati, ad esempio). La sofferenza violenta di una crisi metabolica durante una corsa è un fenomeno emozionalmente intenso.
Emozioni indelebili
Ciò che è racchiuso nella memoria emotiva non si cancella facilmente. Il sistema neurale coinvolto nella memoria emotiva è l’amigdala (appendice a forma di mandorla, in latino, appunto, “amygdala”). Il suo ruolo chiave è stato messo a fuoco negli studi del neuroscienziato Joseph Le Doux, il quale sostiene che, quanto è più intensa l’attivazione emozionale dell’amigdala rispetto a un evento, tanto più esso rimarrà profondamente impresso nella nostra memoria. In altre parole: per riuscire a fissare un dato profondamente nella memoria (anche una memoria motoria, o respiratoria) bisogna passare attraverso un’emozione.
Investire nel cervello: come allenare la mente
Ciò che è essenziale è dunque:
- partire dal presupposto che gli allenamenti avranno sempre una doppia valenza, sia fisica che mentale;
- utilizzare esperienze emozionalmente intense (alta fatica, alto dolore, alta sofferenza) per stimolare il sistema dell’amigdala a entrare in azione e a memorizzare il momento;
- assicurarsi che l’esperienza sia – per quanto intensa – controllabile e superabile dall’atleta. Se deve fare un certo numero di ripetute, che sia in grado di ultimarle a quel ritmo dato, benché con grande fatica. Se deve fare un lunghissimo, che possa finirlo, sebbene a costo di molta sofferenza, poiché, se l’esperienza si risolverà in un insuccesso, l’amigdala nei circuiti neurali memorizzerà il fallimento. Quando in gara l’atleta troverà le stesse sensazioni, la memoria emotiva richiamerà alla mente la sensazione di non farcela, invece che quella del controllo della situazione. Nel momento della crisi o di un elevato affaticamento, il corpo invierà una serie di segnali al cervello – come abbiamo già visto – soprattutto di genere biochimico.
È normale che il cervello riconosca questi stimoli come un invito a rallentare, a fermarsi. Ma se è depositata nella memoria l’esperienza che questo stato di sofferenza può essere superato senza essere distrutti, questa immagine sarà utilizzata e l’atleta non si fermerà.