L’antropologo australiano Mark Dixxen ha vissuto per diverse settimane con una tribù di cacciatori del deserto australiano, i cui membri inseguono la preda per molti giorni, allontanandosi
anche di parecchio dal loro villaggio. Leggendo un suo articolo sul New York Times, un aspetto
che mi ha incuriosito riguarda la tecnica da loro usata per osservare e analizzare le impronte lasciate dagli animali. Dixxen racconta come, dall’orma, i cacciatori riescano a ricavare molte informazioni sulla preda: sesso, peso, età, eventuali deficit motori. Esaminando le tracce di urina sono inoltre in grado di stimare il momento in cui l’animale dovrà fermarsi a bere e, in base alla quantità di granelli di sabbia entrati nell’impronta e dai suoi bordi, anche il tempo trascorso dal suo passaggio.
Conoscendo il territorio su cui si muove l’animale, prevedono le sue mosse e stimano con buona approssimazione il momento in cui lo raggiungeranno. In funzione di tutto ciò, studiano la migliore strategia di caccia. Dixxen descrive come queste persone abbiano enormi abilità e specializzazioni, che si affinano grazie allo scambio di informazioni con gli altri elementi della tribù, compresi i più giovani, sempre stimolati a fare le loro valutazioni. Il gruppo si muove senza alcun problema di orientamento, di giorno e di notte, ed è in grado di valutare il trascorrere del tempo in assenza di qualunque tipo di strumento. Gli stimoli dell’ambiente che circonda queste persone ne hanno enfatizzato la sensibilità. Sono dei selvaggi più abili di un moderno Rambo.
Non so quanto casualmente i redattori del quotidiano statunitense abbiano pubblicato, nello stesso supplemento domenicale del marzo scorso, anche un articolo che riportava le osservazioni di un giornalista sull’uso di accessori tecnologici da parte degli sportivi. Avendo letto prima il pezzo sull’esperienza dell’antropologo, ho sorriso durante la lettura dell’altro articolo. Il dotarsi di strumenti che misurano la propria attività è, secondo l’autore, certamente positivo, anche se la qualità dei dati forniti è spesso molto alta a fronte del livello degli utenti.
A sei mesi dall’acquisto, il 30% degli appassionati ripone gli oggetti, spesso regali, nel cassetto. Del restante 70%, circa la metà usa lo strumento con competenza, stimolato dal ricercare e approfondire informazioni specifiche. Per questi sportivi più coinvolti e interessati, la tecnologia diventa un arricchimento. La parte rimanente dei soggetti viene invece impoverita nelle capacità percettive a causa dell’uso degli strumenti tecnologici.
Si tratta di runner non in grado di valutare con accuratezza sufficiente le distanze percorse, che non percepiscono in maniera adeguata l’impegno fisico e che hanno uno scarso senso dell’orientamento.
È difficile affermare se questa situazione sia dovuta all’uso dello strumento o alla mancanza di stimoli specifici dell’ambiente circostante. Secondo l’autore dell’articolo, uno psicologo, la soluzione che potrebbe portare a un miglioramento percettivo è quella di non fare sempre affidamento sulla tecnologia, ma di usarla occasionalmente, prestando più attenzione allo sforzo che si sta sostenendo, concentrandosi sulle funzioni vitali e su come la fatica le modifica. A volte la troppa sofisticazione non raggiunge le potenzialità che le capacità umane, se sfruttate e ascoltate a fondo, sanno avere.
Come ho avuto modo di esprimere più volte, sono incline a preferire il poco al tanto, l’essenziale al superfluo, il minimo impatto all’eclatante e al vistoso, nel rispetto di esseri e ambienti che hanno bisogno del proprio spazio. Quindi, un sano ritorno alle origini non guasterebbe.