Maggio 1.0 L’infortunio come presa di coscienza

Maggio 1.0 L’infortunio come presa di coscienza

24 Aprile, 2014

Molto spesso ho a che fare con podisti esigenti, perché giustamente impegnati con ogni sforzo possibile per esprimere al meglio il proprio potenziale. Per ottimizzare il rendimento ricercano il meglio anche nei dettagli, visto che la fatica per sostenere i vari allenamenti è sempre tanta e al limite. Dispensare consigli e orientare i podisti nelle scelte tecniche migliori mi riempie le giornate. Decine e decine di mail al giorno e svariate telefonate mi tengono in contatto con situazioni tecniche e psicologiche di ogni tipo. In alcuni casi mi sento però inadeguato, quando non riesco a trasmettere il concetto razionale e logico per convincere un podista a fare la scelta migliore. Un padre vieta al figlio di andare a giocare la partitella di calcio con gli amici per non sudare, visto che è appena guarito. Nel frattempo il genitore percorre trenta chilometri due giorni dopo l’influenza perché da lì a dieci giorni ha una maratona e non può fare a meno di recuperare il lunghissimo non svolto qualche giorno prima. Per le varie problematiche che fanno nascere e per le contraddizioni che generano, non è quindi facile convivere con i podisti. Non lo affermo solo io: sono le mogli e i mariti a confessarmelo, quando con un certo orgoglio mi riportano che quanto ho suggerito per affrontare e gestire una specifica situazione corrisponde per filo e per segno a ciò che avevano proposto loro. «Ma non mi ascolta», mi confessa sempre qualche compagno/a frustrato. Molti podisti, ma ciò vale per tante altre tipologie di sportivi, vivono dentro una bolla, un proprio mondo fatto di credenze e luoghi comuni che portano a decidere in maniera condizionata. Spesso la razionalità non è la linea guida perché si è condizionati da cliché che originano da schemi. E spesso è l’obbligo indotto dai numeri ad alterare la capacità di vedere le cose per come sono. Inanellare chilometri su chilometri crea una sorta di catena dalla quale non ci si libera più: una volta intrapresa questa strada è praticamente impossibile liberarsi dal giogo della prestazione. Solo un evento ha il potere di risvegliare il podista automa: l’infortunio. «Te l’avevo detto che stavi facendo troppo», è il rimprovero del partner quando il compagno podista arriva al punto di rottura. L’impossibilità di correre per un’alterazione strutturale diventa occasione per rendersi conto di avere ecceduto. È vero che chi ci vive vicino spesso non “capisce niente”, perché non sa nulla di ritmi e tabelle, ma non avendo il contagio della prestazione percepisce razionalmente che a volte è troppo, ma anche troppo poco. «Te l’ho detto che con due sole settimane di allenamento non potevi partecipare a quella gara», è un altro rimprovero che muovono i partner. Che disagio ammettere che spesso i propri compagni hanno ragione. Probabilmente è vero che non capiscono nulla di allenamenti, ma stando fuori dalla “bolla” scorgono le situazioni con razionalità e agendo in maniera lucida potrebbero consigliare a fare la scelta più adatta. Difficile dare ragione a chi “non capisce” nulla ma… Conosco la moglie di un podista che non aveva alcuna preparazione tecnica specifica, ma neppure di base, riguardo la corsa e, per dirla tutta, pesava quasi il doppio di lui. Per la signora in questione la maratona è una corsa di tanti chilometri da correre velocemente e suggeriva al marito di allenarsi a lungo correndo svelto, più qualche tirata ogni tanto, immaginando di dover staccare gli avversari. Questo ragazzo americano, di origini magrebine, dando retta alla moglie ha finito la corsa in 2:05’38”. Un tempo che qualche anno fa era il primato del mondo.

Orlando Pizzolato