Giorgio Calcaterra vive nell’Italia del XXI secolo: un paese che appartiene all’occidente cosiddetto avanzato, dove, nonostante la crisi economica riduca le possibilità di consumo, il benessere personale è ancora estremamente elevato. A livello mondiale, negli sport di fatica si assiste ad una sorta di polarizzazione delle nazioni in due blocchi contrapposti.
Da un lato ci sono paesi che non hanno raggiunto il benessere o lo stanno raggiungendo ora. Mi riferisco soprattutto all’Africa e ai paesi dell’Est. In queste nazioni il livello motivazionale degli individui è elevato, perché la gente è spinta dalla “fame”, in senso figurato ma anche in senso letterale. Qui il livello di benessere personale è da sempre ridotto, questo ha prodotto una cultura che minimizza le difficoltà e promuove un rapporto di familiarità con le sensazioni avversive: la fatica, il disagio, la frustrazione etc.
Dall’altra parte c’è il blocco dei paesi dove il benessere è da sempre elevato, ma dove la società stimola l’impegno personale e incoraggia l’assunzione di sfide personali attraverso modelli meritocratici. E inoltre compensa la minore spinta dovuta alla “fame” attraverso la messa in opera di un sistema organizzativo molto efficiente. In questi paesi la scuola e le università forniscono borse di studio, premiando il merito degli atleti più forti con la possibilità di allenarsi al meglio.
Dove si colloca l’Italia in questo quadro? Esattamente nel mezzo dei due blocchi. La nostra cultura è molto poco meritocratica e le nuove generazioni sono insofferenti a modelli di riuscita che enfatizzino lo spirito di sacrificio. La tradizione educativa italiana è fondamentalmente “mammistica” e iperprotegge dal confronto, dalle sfide, dall’assunzione di impegno e dallo sperimentare qualsiasi forma di fatica o disagio. L’aspetto organizzativo è notoriamente carente. La scuola e l’università si pongono, nei fatti, quasi ovunque in antitesi alla pratica sportiva.
Quindi diventa raro trovare ragazzini e ragazzine che vogliano intraprendere la strada degli sport di fatica. È in questo quadro d’insieme che si compie la parabola, che non esiterei a definire “eroica”, di Giorgio e degli altri atleti che hanno scritto la storia dell’ultramaratona nel nostro paese. Siamo in un contesto dove gli incentivi esterni sono ridotti al minimo perché è quasi impossibile in Italia fare l’ultramaratoneta professionista: i corpi militari non reclutano infatti atleti di sport non olimpici.
Tutti questi personaggi sono stati straordinari perché, non essendoci altro a disposizione, hanno fatto leva solo su motivazioni individuali e su di una volontà indomabile. Queste motivazioni individuali sono di un tipo particolare: appartengono a quella categoria che gli psicologi, con il loro linguaggio ermetico sono soliti definire “intrinseca”. La motivazione intrinseca incorpora il gusto della sfida, il piacere di sentirsi capaci, di farcela. Se si riesce a generare questo tipo di passione in un atleta, essa è più forte della spinta generata dalla fame, dagli incentivi o dalla coazione esterna.
E spesso il conseguimento di un incentivo materiale porta a un indebolimento di questa spinta motivazionale interna. In altre parole: aumentando il livello degli incentivi, facilitando le condizioni organizzative, si può andare incontro paradossalmente a un calo della passione.
La prima cosa che occorre è un cambiamento culturale ed educativo per modificare il rapporto con il disagio e la fatica da cui oggi la società ci iperprotegge per interessi commerciali. E anche nei confronti dei modelli di riuscita, che devono essere meritocratici e fortemente legati all’impegno. A tutto questo ci arriveremo presto: non grazie a riforme politiche o scolastiche, ma semplicemente per l’impatto che la crisi economica produrrà sul nostro stile di vita.