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L’anno che verrà
Il problema principale non sembra quindi l’assenza totale di talenti, quanto piuttosto una strategia per non perderli. «I meccanismi di entrata e uscita (dai gruppi militari, ndr) vanno rivisti: se in due anni non fai risultati, trovi un lavoro» tuonava il presidente della Fidal Alfio Giomi dopo le delusioni di Pechino, puntando l’indice anche sull’eccessivo decentramento. «Non accetteremo più che gli atleti si allenino a casa loro. Vietato isolarsi: si dovranno fare periodi nei centri tecnici o con i nostri advisor» proseguiva il toscano. Ma, a distanza di un anno, la musica sembra non essere cambiata, almeno stando alla requisitoria del dimissionario d.t. Magnani: «Ammetto le mie colpe, diversamente non andrei via. […] Ma mai ho fatto di testa mia, le scelte sono sempre state condivise e collegiali. […] Favorire il decentramento territoriale è giusto, ma non serve per l’attività di vertice. […] Non si può intervenire ovunque, bisogna finalizzare. E la prima voce di bilancio dev’essere l’attività di vertice. A costo di diventare del tutto impopolare, dico che si fa troppo per la periferia, i comitati regionali e provinciali» leggiamo sulle pagine di Gazzetta.
Appagati dal posto fisso? Gratificati di brillare tra le mura di casa? Pantofolai che non abbandonano la pista di quartiere e i genitori-allenatori? Bloccati a un passo dalla consacrazione. Cosa frena i nostri talenti dal definitivo salto di qualità? Aldo Cazzullo, sempre sulle pagine del Corriere della Sera all’indomani di Pechino 2015, paragonava l’inconsistenza del nostro medagliere allo specchio di un Paese stanco.
«La prestazione degli azzurri è stata mortificante. Anzi, non è stata. Non soltanto non hanno vinto neppure una medaglia, non ci hanno neppure provato. In molte discipline non avevamo un solo atleta ai blocchi di partenza. […] Non è solo una questione tecnica o di impianti. È che la fatica ci fa sempre più paura. E avanza l’idea che il sacrificio non serva a nulla, che la partita sia già giocata, e perduta. […] Mai come stavolta lo stato comatoso dell’atletica sembra rispecchiare l’umore di un Paese depresso, abulico, arrivato quasi al disprezzo di se stesso. Un Paese in cui lottare per emergere è considerato inutile o disdicevole» scriveva. E a Rio, guardando anche agli altri sport, quante finali per l’oro abbiamo perso? Di nuovo lì: cosa ci blocca a un passo dalla consacrazione?
Ipse dixit
Che il problema non fosse (sol)tanto la mancanza di fondi, quando piuttosto la programmazione lo aveva già evidenziato Pietro Mennea nel 2008, uno che di medaglie se ne intende. Si era nel bel mezzo del flop olimpico di Andrew Howe, atleta che a otto anni e zero medaglie di distanza continua a vestire la casacca dell’Aeronautica militare e a ricevere sovvenzioni federali per allenarsi all’estero. «Mennea, l’atletica si avvia verso un flop?» lo incalzava Massimo Mazzitelli su Repubblica. «È ancora presto per dirlo ma la strada è quella» replicava l’ex velocista. «Colpa del sistema, non c’è programmazione, visione. Manca un sistema di lavoro, una metodologia. Abbiamo disperso un patrimonio tecnico che il mondo ci invidiava. Ho visto un filmato sugli allenamenti di Bolt: correva trainando un grosso peso. Io e Vittori lo facevamo 30 anni fa» proseguiva Mennea.
Certo, se a sostegno dello sport italiano ci fosse un sistema come quello delle good causes della National Lottery, che dalla metà degli anni ’90 ha destinato oltre 33 miliardi di sterline a progetti nei campi della salute, dell’educazione, della tutela ambientale, dello sport (circa il 20% del totale) e dell’arte, forse anche lo sport italiano dormirebbe sonni più tranquilli. E si sveglierebbe con la giusta lucidità per poter attuare scelte più lungimiranti. In vista delle Olimpiadi di Rio la National Lottery ha destinato a UK Sport poco più di 80 milioni di sterline all’anno per un totale di 337 milioni nel quadriennio 2013-2017, utilizzati per sovvenzionare oltre 1.300 olimpionici, per la costruzione e la manutenzione degli impianti e per l’allargamento dell’attività di base. Sorge il sospetto che il secondo posto nel medagliere di Rio, alle spalle dei soli Stati Uniti, non sia un caso. Con 27 medaglie d’oro, 23 d’argento e 17 di bronzo la Gran Bretagna è riuscita a superare il già lauto bottino delle olimpiadi casalinghe di Londra 2012 (67 contro 65), risultato più unico che raro.
Le dimissioni di Massimo Magnani non basteranno certo a rimpinzare il medagliere azzurro ai prossimi Giochi, del resto di cognome non fa mica Malaussène. Il suo successore, Stefano Baldini o chiunque altro, avrà dalla sua, se non altro, il tempo e un buon bacino di giovani su cui contare.
Non ci resta che aspettare, prendere nota degli emergenti suggeriti dal d.t. del settore givanile e sperare. Sperare che queste promesse recepiscano le parole di una di loro, una che l’anno scorso piangeva per un bronzo agli EuroJuniors e quest’anno ha sfiorato il terzo posto agli Europei “dei grandi”. Una che ha trascinato la 4×400 azzurra in finale a Rio. «Bisogna darsi una mossetta, mi piacerebbe spronare quelli a casa perché abbiamo altri che hanno i numeri per stare qui. Tirateli fuori» Ayomide docet.