Boston, il giorno dopo

Boston, il giorno dopo

16 Aprile, 2013

24 ore dopo. Un giorno dalla prima esplosione in Boylston Street, 14:50 circa, ora USA, 20:50 in Italia. Breve riepilogo di 24 ore che non avremmo voluto vivere.

Gli italiani – Egoisticamente diciamo: gli italiani stanno tutti bene. I nostri abituali tour operator ce lo hanno confermato. Così Antonio Baldisserotto: «Abbiamo parlato con il responsabile del gruppo della Terramia, composto di 70 persone, e dopo aver fatto uno scrupoloso appello di tutti i partecipanti, maratoneti e familiari, possiamo finalmente comunicare che stanno tutti bene».

Così anche Massimo Rossi, della modenese Ovunque Viaggi: «I nostri circa 40 partecipanti faranno rientro nella mattina di mercoledì 17 aprile, la maggior parte all’aeroporto di Bologna, mentre alcuni atterreranno su Milano.Non ci aspettavamo che lo spazio aereo venisse riaperto così in fretta». 

E Fulvio Massini, impegnato con la reggiana Born to run, tirato il sospiro di sollievo per un maratoneta del suo gruppo che non si trovava (era stato portato in una chiesa, assieme a molti altri concorrenti ancora sul percorso al momento delle esplosioni, dai volontari) trova giusto sottolineare la bella reazione della città: «Tempestivi i soccorsi, sorretti dalla voglia dei volontari e dei cittadini di dimostrare, innanzitutto a se stessi, di essere più forti del terrore».

Il bilancio – Il totale dei morti si è fermato a tre, per quanto a noi basti quel bambino di otto anni, Martin Richard, di Dorchester, quartiere della prima periferia di Boston, che aspettava il papà che stava correndo, per dire che quei morti sono troppi. L’ipotesi di 12 vittime, che ha preso forma nella nostra scorsa notte sui siti dei quotidiani USA, per il momento è priva di fondamento. Purtroppo la precisazione “per il momento” è ancora necessaria: delle 176 persone ricoverate al Massachusset General Hospital, 17 versano in gravi condizioni.

La dinamica – Due ordigni fatti esplodere a un intervallo di 12 secondi. Uno probabilmente nascosto in una pentola a pressione all’interno di uno zaino, entrambi sistemati in modo da essere confusi con la spazzatura. Il comando azionato a distanza, probabilmente da un telefonino. Per sicurezza è stato poi disposto il blocco delle comunicazioni di telefonia mobile, il che ha reso più difficile, per molti, cercare notizie di famigliari e amici.  

Le ipotesi – Che di terrorismo si tratti è apparso chiaro fin dalle modalità con cui le esplosioni sono accadute: in sequenza e in punti diversi, come nel più tipico schema dei guastatori in guerra, in ogni moderno conflitto.

Inevitabile pensare ad Al Qaeda, visto il recente proclama di attentati “spettacolari e scioccanti” registrato dagli osservatori del terrorismo. Fonti vicine agli investigatori, però, sottolineano che trova spazio questa riflessione: la matrice islamica avrebbe probabilmente scelto modalità ancora più cruente, concentrando la propria attività criminale, ad esempio, nella zona e nel momento della partenza, dove con lo stesso potenziale di esplosivo si sarebbero causate molte più vittime, con le migliaia di atleti concentrati in uno spazio ristretto. A rendere ancora meno probabile questa pista investigativa è intervenuta in giornata una presa di distanza delle forze talebane, che in sostanza hanno dichiarato: «Noi non c’entriamo».

Una squadra parallela è stata quindi impegnata a seguire un’altra traccia, di matrice nazionale, interna. Ѐ quella che conduce alla realtà dei “suprematisti” bianchi, eredi del Ku Klux Klan, cui l’odiato presidente nero Barack Obama vuole impedire l’uso libero delle armi. Fatale, in tal senso, sarebbe risultata la decisione degli organizzatori  che hanno dedicato l’ultimo miglio di gara ai morti della strage di Newtown, nel Connecticut, ennesimo risultato della follia abbinata alle armi facili.