Così si corre il lungo in Africa. E si decide chi va alla maratona

Così si corre il lungo in Africa. E si decide chi va alla maratona

29 Gennaio, 2020
Foto Francesca Grana
Cronaca di una giornata di allenamento al Discovery Kenya. Ecco la spietata seduta-massacro da cui può nascere un futuro campione

Le porte del corridoio rimbombano una a una, è il coach che sta passando in rassegna stanza per stanza. Balzo giù dal letto e mi vesto, sono le sei e quaranta. Nel camp questa mattina c’è fermento e si respira un’aria diversa. Anche i ragazzi sono meno silenziosi del solito.

Allenamenti come questo da 35 km se ne corrono dodici o tredici all’anno, e per gli atleti sono un’occasione per constatare il proprio stato di forma e mettersi in mostra per un eventuale posto in squadra. Supero con un balzo Edwin e Martin intenti a riempire delle borracce e saluto il fisioterapista con l’aria assonnata, quindi esco all’aperto.

C’è una leggera brezza e il cielo è sereno, tra un’ora il sole comincerà a picchiare forte e le loro scarpe solleveranno nuvole di polvere dense dagli sterrati. Qualcuno si sta stirando le gambe, altri si allacciano le scarpe con estrema calma. Salgo le scale che portano al cancello e mi affaccio fuori. C’è un nutrito gruppo di atleti in attesa sul ciglio della strada, sono tutti in tenuta da corsa ma non li ho mai visti. Viktor mi spiega che fanno parte del team ma per motivi di spazio non vivono nel camp.

Gabriele Rosa, l’artefice del progetto Discovery Kenya

Passano cinque minuti e un suv nero fa capolino dalla strada. È l’auto del dottor Rosa che tutti stavano aspettando. Il creatore del Discovery Kenya è a dieci metri da me. L’uomo che ha inventato i training camp in Africa, intuendo che fosse più efficacie fare allenare i campioni keniani nel proprio paese invece che estirparli dalla loro terra per portarli in Europa. Concetto poi copiato a ruota da tutto il mondo.

Mi avvicino al coach e gli domando come faremo a spostare tutta questa gente fino al punto di partenza, visto che dista sette chilometri. Mi risponde che stiamo aspettando un matatu. Ne hanno affittato uno per tutta la mattinata e può portare quattordici persone. “Funge anche da mezzo scopa”, precisa il coach. “Per raccattare lungo il percorso eventuali atleti infortunati o che si fermano”.

“Speriamo non ce ne siano molti” faccio io.

Quando ci mettiamo in movimento sembriamo una carovana presidenziale con tanto di scorta. In testa c’è il Suv del dottore, dietro il furgoncino sgangherato e poi la nostra auto che chiude la fila. Cinque ragazzi non entravano nei mezzi, così hanno dovuto arrangiarsi con due boda boda e ci raggiungeranno nel punto prestabilito.

Ammetto che mi dispiace molto non poterli accompagnare almeno per qualche chilometro, ma con i ritmi che tengono questi campioni si sarebbe giusto trattato di una manciata di chilometri, di più impossibile. In auto il coach mi spiegava che coprono la distanza a una media di 3.20’’ al km, il che mi sembra eccezionale vista e considerata l’alta quota e un tracciato interamente sterrato. Non ho mai visto tanto talento concentrato in così poco spazio, è uno spettacolo per gli occhi.

 

Kenya, dove i runner sono “animali sacri”

Il punto scelto per la partenza è uno spiazzo chiuso tra tre file di baracche che formano una piazzola. Tutt’attorno qualche passante si ferma a guardare, ma i più ci sono abituati e continuano il loro tram tram mattiniero come se niente fosse.

Mentre il dottor Rosa si informa sui tre nuovi giovani in prova al team, faccio due passi per dare un’occhiata ai ragazzi. I keniani sono strani, davvero. Ogni tanto appaiono seri e chiusi nel loro mondo, poi all’improvviso, quando non te lo aspetteresti, ti scambiano un sorriso che ti fa capire che è tutto ok. È tutto pronto, siamo agli sgoccioli. Il coach Laurence trasmette le ultime indicazioni in kalenjin mentre i ragazzi lo ascoltano radunati intorno. Ora la concentrazione è palpabile.

Balziamo in auto e partiamo, lentamente, molto lentamente. La strada è abbastanza larga per tutti, ma c’è già un via vai di gente con mucche, bambini che vanno a scuola, e motorini che ci tagliano la strada. Per fortuna i runner qui in Kenya sono sacri, e la gente si fa da parte senza manco bisogno di suonare il clacson. Ho chiesto di seguire l’allenamento dall’auto del coach per essere vicino agli aspetti più tecnici e rudimentali della corsa, l’unico problema è che ora sono letteralmente sommerso da borracce di ogni tipo.

Ne conto ventisei, ma ne devo avere anche qualcuna dietro la schiena e tre sotto il sedile. Nel camp avevo notato uno dei ragazzi girare per i corridoi con un pennarello in mano. “Bene!” avevo pensato tra me e me, “apporranno certamente il proprio nome sulle borracce per riconoscerle”. Purtroppo mi sbagliavo, solo tre borracce hanno un nome, peraltro incomprensibile, le altre sono indistinguibili. Mi faccio il segno della croce.

Lo sterrato, come una schiena ustionata

Il gruppo corre spedito lungo il sentiero sterrato e inoltrandosi poco a poco tra le coltivazioni di té.  Di tanto in tanto scompare alla vista dietro una curva o una collinetta riapparendo subito dopo unito e compatto.

È un autentico spettacolo. Anche questa volta non so se godermi il panorama o lo show che stanno mettendo in piedi questi trentuno talenti. Dall’auto le loro gambe sembrano dei pistoni che frustano violentemente la terra rossa e le loro magliette colorate formano un arcobaleno.

Lo sterrato ci da una serie di problemi. È diverso da quelli spianati e regolari a cui siamo abituati in Europa, questi hanno una conformazione strana, come quando la pelle ustionata viene ricoperta da quelle orribili bolle viscide. E poi hanno una scomoda conformazione a schiena d’asino che sbilancia pericolosamente chi corre verso uno dei due lati.

Anche Eyob Faniel, qui dove il tempo si è fermato

Chilometro dodici: Ora il gruppo si sta sgranando e i meno resistenti poco a poco si staccano dai compagni. Li superiamo veloci con la macchina catturando con lo sguardo le prime espressioni di fatica. Anche i contadini che lavorano nei campi smettono di lavorare incuriositi dalla nostra carovana, mentre i bambini cercano di decifrare il senso di quella corsa a ritmi folli che sa poco di gioco ma molto di sudore. Non salutano e non si sbracciano, semplicemente ci guardano scorrere via come si osserva un aereo incidere il cielo con la sua scia bianca. Qui nelle Nandi Hills sembra che il tempo si sia fermato.

Tre giorni prima avevo incontrato il nostro nazionale Eboy Faniel poco distante dal camp di Rosa. “Ti renderai subito conto di che razza di atleti sono i keniani. Ti basterà vederli correre per fartene un’idea” mi aveva anticipato. Ora capisco che aveva ragione.

 

Il momento del rifornimento

Chilometro diciotto: Proviamo ad affiancare il gruppo sulla destra, in modo da passargli i rifornimenti. Il coach è un maestro al volante, perché oltre ad evitare le buche e le moto che ci vengono contro riesce anche a dare indicazioni. “In che lingua gli stai parlando?” domando. Ci pensa un attimo,  “Un mix di tutto. Swaili e kalenijin, dipende.”

Mi affaccio dal finestrino con metà del corpo e urlo “Acqua”. In cinque alzano la mano e nel gruppo si apre un varco per farli avvicinare all’auto, ma capire quale siano le loro borracce è un’impresa. Il coach pare saperlo e mi aiuta ad individuarle. Una a una le passo ai ragazzi che le afferrano senza distogliere lo sguardo dalla strada (una caduta potrebbe mandare al vento settimane di duro allenamento) e strappando qualche sorsata tra un respiro e l’altro.

Km 25: i primi ritiri

Chilometro venticinque: è il momento dei primi ritiri. Prima tocca a Felix Kipchumba, un giovane fuoriclasse da 2:12, poi a Marius Kiptoo, un veterano da 2:04’. “Gli ho detto io di fermarsi” mi spiega il coach riferendosi al primo. “Corre a Honk Kong come lepre e deve risparmiarsi”. Il secondo invece è appena ritornato dal Marathon Center di Brescia per un fastidio al tendine. Intuisco che non stia al top. Intanto il gruppo è diventato solo un lontano miraggio, dal primo all’ultimo ci sono almeno milleduecento metri e noi dobbiamo triplicare gli sforzi per fare la spola tra di loro per passare i sali minerali. Non che negli ultimi duemila metri non ci avessimo provato, ma la collina che i ragazzi hanno dovuto scalare sembrava una montagna interminabile e ci è stato impossibile.

So cosa significhi correre su quei terreni accidentati quando il sole ti picchia nel cervello e ti manca ancora un quarto del percorso, eppure appena ci affiancavamo ai ragazzi sembrava che stessero sprintando. Che spettacolo questi keniani, non ho mai visto correre nessuno a questi livelli, sono di un altro pianeta. Io continuo a elargire borracce dal Subaru del Coach mentre facciamo in tempo a caricarci in macchina altri due atleti che hanno alzato bandiera bianca (entrambi corrono tre minuti più forte dell’attuale record italiano) e scambiare due parole con il dottor Rosa dal finestrino, poi ci rimettiamo all’inseguimento dei primi.

Uno spettacolo che rasenta il sovrumano

Chilometro trenta: ormai ci siamo, la parte più difficile è arrivata, quando anche le ultime forze sembrano abbandonarti e non resta che la forza di volontà a farsi carico di tutto quel dolore. Il mio sedile ormai è una pozza d’acqua appiccicaticcia per via delle borracce chiuse male, e in testa ormai conduce solo il puro talento o chi è in stato di grazia per una maratona imminente. Oggi è il giorno di Amo Kiplagat (vincitore della maratona di Bilbao 2019), Martin Cheruiyot (vincitore della maratona di Malaga) e Viktor Kiplimo (vincitore a Oporto). Capite? Un drappello di testa costituito da fuoriclasse che sfreccia per le campagne keniote come inseguito dal diavolo. Avrebbero dovuto farmi pagare per godermi questo spettacolo. Laurence si affaccia dal finestrino. “Two km to go, two Km to goo! Push, push!” e quello risponde spingendo, e forte. Nell’auto sento una leggera accelerazione. È il coach che ha premuto sul pedale per non farsi staccare da quel razzo.

Ma ci sono almeno altri due o tre ragazzi molto giovani e promettenti che stanno dando battaglia immediatamente dietro. Ora è diventato un conto alla rovescia. Dal polso del coach sorveglio con la coda dell’occhio il suo gps che vomita gli ultimi segmenti di spazio. E non si tratta di migliaia o di centinaia di metri, ma di decine. Poco più che un sospiro a quelle velocità. E quando il bip del cronometro segna la fine, tutte le auto accostano e spengono i motori in prossimità di un villaggio. Arriva Amos, poi Viktor, e via via tutti gli altri.

Ho assistito a qualcosa di unico, molto vicino al sovrumano. Un allenamento così intenso che perfino dei maratoneti capaci di correre in 2:04’’ o 2:06’’ non sono riusciti a reggere. Ma quello che mi stupisce più di tutto è che arrivati al trentacinquesimo chilometro nessuno pare stravolto o si lascia cadere per terra. Si limitano a bere, e a rivestirsi. Con molta calma, ora si. Poi rimontiamo tutti sui mezzi e ce ne andiamo veloci così come siamo arrivati. Sullo show per oggi cala il sipario.