Chi si avvicina al running di solito va piano per un motivo preciso: riesce a correre più a lungo, uno degli obiettivi primari di chi intraprende questa attività.
Calma e problemi
Ma quali sono le insidie di una corsa troppo lenta, dal punto di vista ortopedico-biomeccanico?
Prolungando il tempo di contatto con il terreno, si esaspera il movimento di pronazione del piede, con inconvenienti a carico delle strutture fasciali e tendinee delle estremità inferiori, ma anche di alcune componenti del ginocchio, per l’eccessiva intrarotazione della tibia.
Mai troppo veloci
Anche la corsa veloce, però, arreca degli elementi di traumatismo. Una maggiore rapidità implica più energia cinetica e quindi le forze che deve sopportare il corpo nella fase di decelerazione sono maggiori, rendendo necessaria di una preparazione muscolare specifica.
A incrementare è anche la lunghezza del passo e, di conseguenza, la parabola disegnata dal baricentro del corpo, che tende ad avere oscillazioni altimetriche più significative, con aumento del trauma da impatto.
Inoltre, anche la capacità di stiramento di muscoli e tendini aumenta al progredire della velocità e, nei soggetti poco predisposti, l’infortunio può essere in agguato.
Le variazioni di ritmo
Questa tipologia di allenamento, rompendo schemi di eccessiva ripetitività del gesto atletico, è da ritenersi la più indicata ai fini di un’attivazione muscolare per il controllo del movimento. La muscolatura, infatti, viene impiegata in modo più completo e alcuni distretti, impegnati ad alto ritmo, possono godere di pause di ristoro al calare dello sforzo.
Nota: Questo testo rappresenta una sintesi del servizio “Chi va piano non va (sempre) lontano”, di Luca De Ponti, pubblicato su Correre n. 404, giugno 2018 (in edicola da sabato 2 giugno), alle pagine 66-67.