Anniversari: i trent’anni di Gianni Poli primo a New York

Anniversari: i trent’anni di Gianni Poli primo a New York

02 Novembre, 2016

Era il 2 novembre 1986: il bresciano Gianni Poli vince la maratona di New York in 2:11’06”. La diretta di Domenica In, con Toto Cutugno che urla: «Bravo Gianni!» rende la gara americana un fenomeno nazionalpopolare, lanciando in orbita la scuola azzurra di maratona che, già nel biennio precedente, aveva trionfato con Orlando Pizzolato. Per i visitatori di correre.it, nel giorno dell’anniversario riproponiamo l’intervista al grande maratoneta.

Il mio sponsor di allora, Ellesse, era anche lo sponsor della maratona. In passato avevo corso negli USA (a Chicago, ndr), ma New York fu una decisione “aziendale”. Può sembrare semplice, ma il percorso fu davvero tormentato. Avevo trascorso l’estate molto bene, le gambe giravano, facevo grandi allenamenti. Una settimana prima della maratona degli Europei di Stoccarda, ecco una faringite. Corsi i Campionati continentali in condizioni precarie, giunsi tredicesimo in crisi di disidratazione, stanchissimo. Non mi è mai capitato di mangiare voracemente due panini alla fine di una gara, come in quell’occasione! Ero demoralizzato. Per fortuna, nel tunnel dello stadio di Stoccarda, il mio tecnico, Gabriele Rosa, mi disse: “Vincerai a New York!”. Un profeta, è il caso di dire».

Ci può fare l’esempio di un allenamento decisivo prima di New York?
«Anche qui, si può parlare di una storia particolare. Dopo gli Europei mi percorreva un misto di sensazioni fra la delusione e la rabbia. E tensione, inutile dirlo. Era come se non riuscissi a vivere bene gli allenamenti. Posso ricordare un mio cavallo di battaglia: tre volte i 5.000 m in pista in 14’45”. Un training che mi ha dato una certa consapevolezza e fiducia in me stesso. Però, devo dire, è stato grande il lavoro psicologico di Gabriele Rosa, che faceva leva sul mio grado di autostima. Quando si è atleti di un certo valore bisogna alleggerire la pressione, è indubbio».

Qual è il bello della Grande Mela?
«Il pubblico che segue e incita tutti, fino all’ultimo partecipante. Quando ho vinto New York ero concentratissimo su di me e su De Castella, sugli avversari. Non sentivo niente. Ho corso poi la gara nel 1994 e nel 2001 (l’anno delle Torri Gemelle), un appassionato come tanti, confuso nella massa. Ho chiuso in 3:30’ nel 2001 e mi sono goduto allora l’atmosfera di festa. Una città che si ferma e che segue 30.000 persone. Proprio tutti. La folla dà una grande carica. Ho corso diverse maratone, ma da questo punto di vista New York è unica. Come entusiasmo le si avvicina un po’ solo Boston».

Vincere a New York cambia la vita?
«Si, inutile negarlo. Ricordo quando sono andato nella Grande Mela la prima volta. Le attenzioni erano rivolte tutte a Orlando Pizzolato. Dopo il primo posto, mi sono dovuto sottoporre a migliaia di interviste, ricevevo offerte per correre su strada dagli organizzatori di mezzo mondo. Se mi hanno cercato per telefilm americani? No, quella è una leggenda metropolitana… è vero invece che io e Pizzolato abbiamo girato, nel gennaio 1987, il film La maratona, con la regia del povero Carradine. Puoi vincere a Fukuoka, Londra, Chicago, in altre metropoli, ma la grande popolarità arriva con New York, è indubbio.»

Che sensazione si ha quando ci si presenta la seconda volta e si è favoriti?
«Quella del 1987 è stata la prima edizione da favorito. Purtroppo non stavo bene. Fatti pochi chilometri mi ritirai e mi fermai a bordo della strada, in prossimità di quelle scale antincendio che si vedono in tanti film americani, ricordo perfettamente. Però non bluffai, forse fu la prima volta che vissi un ritiro in serenità. E io non mi ritiravo tanto facilmente, cercavo sempre di finire una maratona. Anche in questo senso New York mi ha aiutato. Ad accettare anche le sconfitte.»

Per molti nostri lettori, la maratona di domenica prossima sarà una prima volta. Qualche consiglio?
«New York è una maratona impegnativa. Può anche essere traditrice. E chiarisco subito. L’inizio è a tuo favore, in leggera discesa. Se ci mettiamo poi l’entusiasmo e l’adrenalina della folla, si rischia di partire troppo forte e poi di accusare magari già al Queensboro Bridge, uno dei punti chiave del percorso. Dunque, prudenza all’inizio! Il Central Park, con le continue ondulazioni, è terribile. Sarà stato utile l’aver utilizzato dei percorsi collinari durante la preparazione.»

Non è un po’ impietoso il fatto che un record mondiale (o italiano) passi in secondo piano rispetto alla vittoria a New York?
«Certo, non è una bella sensazione, ma il grande pubblico è interessato a una gara che fa atmosfera proprio come New York. Faccio un esempio: nell’ottobre del 1985 sono stato il primo italiano a correre la maratona in meno di 2:10’. È successo a Chicago (2:09’57”). Pochi giorni dopo, siamo andati a New York a seguire la maratona. Il mio risultato è passato in secondo piano rispetto alla seconda vittoria consecutiva di Orlando Pizzolato. Ma d’altronde New York è unica. Ricordo anche la magnifica atmosfera del 25° anniversario della maratona, quando ci siamo ritrovati io, Salazar, Grete Waitz, Bill Rodgers, a una cena di beneficenza per i malati di cancro in ricordo di Fred Lebow. Certe cose succedono solo lì».