Prima di Gerbi, Fava, Scartezzini, Panetta e Lambruschini, la specialità dei 3.000 siepi aveva già avuto un grande interprete azzurro: Ernesto Ambrosini, che conquistò la medaglia di bronzo ai Giochi olimpici di Anversa, nel 1920. Un autentico pioniere. Così lo definiscono, su Correre di agosto, Augusto Frasca e Danilo Mazzone, curatori della rubrica Il gazzettino della corsa, nella quale ogni mese ripropongono un grande interprete italiano del mezzofondo e fondo, in un viaggio nel tempo cominciato con il ritratto di Achille Bargossi (Correre n. 339, gennaio 2013) e proseguito, mese per mese, con Carlo Airoldi, Pericle Pagliani, Dorando Pietri, Emilio Lunghi, Carlo Speroni e Valerio Arri. L’obiettivo è di proporre ai nostri lettori l’Italia che correva quando ancora il correre non si chiamava jogging, footing e tantomeno running, e raccontare i piccoli, umili eroi, ma spesso grandi come atleti, che lontano dai riflettori compirono grandi imprese.
Ernesto Ambrosini, da Monza, era un tipografo. Nella prima guerra mondiale venne ferito e ricoverato in ospedale in condizioni gravi. Il suo risultato olimpico, nel 1920, ha qualcosa di clamoroso, perché affronta le siepi senza preparazione specifica, essendo soprattutto (questo il motivo della convocazione in azzurro) uno straordinario talento del mezzofondo, dotato della capacità di spaziare con indentica efficacia dagli 800 m alle prove di fondo. Dal punto di vista tecnico, però, la sua stagione più importante resta il 1923, quando stabilì il record mondiale dei 3.000 siepi: 9’36″3. Per dare una “cifra” a questa prestazione, precisiamo che Ambrosini tolse il mondiale a Paavo Nurmi, che aveva fermato il cronometro a 9’54″4.
La descrizione del carattere guascone (al via non si limitava ad annunciare la sua vittoria, ma pronosticava anche i distacchi con cui ogni avversario sarebbe stato battuto), l’affresco del tempo e i dettagli delle gare fanno di queste pagine un’occasione di piacevole lettura.