60 anni fa la vittoria di Bikila nella maratona dei Giochi olimpici di Roma

60 anni fa la vittoria di Bikila nella maratona dei Giochi olimpici di Roma

10 Settembre, 2020
Foto: Omega Fotocronache
Il 10 settembre 1960 i Giochi olimpici romani si conclusero con la maratona, che Abebe Bikila corse a piedi nudi entrando così nella leggenda dello sport. Correre celebra l’anniversario di quell’evento epico riproponendone il ricordo-racconto che un grande cronista dell’atletica, Carlo Monti, scrisse per la nostra rivista. 

Quella sua maratona percorsa tutta a piedi nudi lo ha fatto entrare nella leggenda dello sport. Abebe Bikila si presentò per primo all’arrivo posto sotto l’arco di Costantino. La gara, con la quale calava il sipario sui Giochi olimpici romani, venne disputata di sera, fra le luci delle fiaccole e le ombre fosforescenti delle rovine della città antica. Era il 10 settembre 1960. Correre celebra i sessant’anni di quel magico momento riproponendone il ricordo-racconto che un grande cronista dell’atletica, Carlo Monti, scrisse per la nostra rivista. Monti seguí in diretta la gara e dopo parlò col grande maratoneta etiope. 

Quello strano nome nella starting list

“Fra gli iscritti spiccava un nome un po’ strano: Bikila Abebe, che richiamò l’attenzione dei cronisti quasi soltanto perché rappresentante dell’Etiopia. In realtà quel nome apparteneva a un abissino e in amarico, Abek Beclaà, questa la giusta pronuncia, aveva il significato di fiore che cresce. 

Era nato a Mout, sull’altipiano etiope di Bagora, il 7 agosto 1932; aveva faticato in fattoria, saltando e correndo fra un’amba ed un acrocoro, prenotando, senza saperlo, il suo futuro di maratoneta immenso. Poi da soldato era entrato a far parte della guardia imperiale di Hailé Selassié, il Negus Negesti dell’Etiopia, tornato sul trono nel 1941, dopo la resa degli italiani. Da soldato semplice aveva scarpinato parecchio in lungo ed in largo, ma sempre in Etiopia.   

A mandarlo a Roma era stato l’allenatore dei fondisti, un finlandese, Onni Niskanen, che, in vista dei Giochi olimpici romani, aveva preparato il suo pupillo allenandolo su un percorso di 43 km, disegnato a 1.800 metri di altitudine e che avrebbe scoperto altri grandi fondisti etiopi, come Wolde e Masresha. Chi fosse in realtà Bikila, alla sua prima uscita dal Paese, nessuno lo sapeva, sebbene si presentasse a Roma a 28 anni compiuti, ma la convinzione che potesse stupire tutti era talmente forte nel suo allenatore, che questi gli dettò persino i numeri di gara degli avversari più quotati, fra i quali spiccava quello di Rhadi Ben Abdesselem, pure africano, capitano dell’esercito marocchino, già famoso per precedenti successi: «Stai attento al numero 26; quello è un osso duro, che non dovrai mai perdere di vista. Può vincere, se tu non gli stai sotto».”

L’unico a piedi nudi 

Dei partenti era l’unico a correre a piedi nudi e suscitò insinuazioni di rara inciviltà. Qualcuno disse: «Non ha nemmeno i soldi per comprarsi un paio di scarpe». In realtà le scarpe le aveva; ma optò per i piedi nudi, pieni di calli soprattutto sotto la pianta, che gli permettevano di correre come se avesse le scarpe. La corsa si sviluppò soprattutto lungo la via Appia e per le strade della Roma Antica, illuminate dalle fiaccole.

Al via Bikila si piazzò nel gruppo di testa, cercando di individuare il numero 26, quello dell’atleta che sembrava il favorito per l’oro. Ma di 26 non ne vedeva; pensò che facesse tattica, restando nel gruppone. Accanto a sé, man mano che i chilometri si snodavano, altri numeri gli stavano accanto. Fra gli altri un 185, che gli teneva testa e sovente gli dava pure il cambio nel guidare la corsa. Ma Bikila cercava il 26 e non vedendolo cominciò a preoccuparsi. Come cominciò a preoccuparsi di quel 185 (nella foto) che gli teneva dietro senza particolare fatica, compagno d’avventura solitaria dal 18° chilometro, pronto a passare in testa per allungare il passo. Intanto i chilometri aumentavano; una folla strabocchevole applaudiva i corridori e per troppo entusiasmo lanciava anche qualche lazzo impertinente. A Bikila, che ne stava davanti, urlavano: «Se vinci da soldato passerai a generale» oppure «Fatti comprare una Vespa». E lui con il volto trasformato in una maschera, che non lasciava trasparire emozioni, sempre in testa insieme a quel misterioso 185, del quale avvertiva il fiato sul collo.

Il cambio vincente

“D’un tratto sentì un rantolo e vide l’antagonista rallentare quasi di colpo. A Porta San Sebastiano rimase solo; 5 chilometri di passerella entusiasmante, fra archi, colonne, marmi. Passò sotto l’Obelisco di Axum e la sua corsa, ormai vittoriosa, fu rapida e leggera.

All’arrivo lo avvolsero in una coperta e lui senza sorridere, come se nulla fosse accaduto, disse soltanto: «Non sono stanco» Poi subito chiese chi fosse quel numero 185. Rhadi, gli dissero; prima della partenza ha cambiato numero, da 26 a 185. Bikila aveva chiuso in 2:15’16”, record del mondo, frutto di un ultimo tratto di 10 km corso a ritmo spaventoso, davanti a Rahdi, distrutto dalla fatica (2:15’41”) e al neozelandese Arthur Barrington (2:17’18”). Vittoria storica, perché quello di Bikila era il primo oro conquistato dall’Africa ai Giochi. E tempo storico, perché migliorava di ben sette minuti il vecchio record olimpico, il tempo segnato da Zatopek (2:23’03”) a Helsinki ’52.”

Abebe Bikila
E Bikila disse: «Provate a pungere i miei calli»

“Noi cronisti gli andammo incontro, senza ottenere granché. Non parlava né l’inglese, né il francese, tantomeno l’italiano. Il suo amarico era ostico e del resto l’interprete non sempre traduceva a puntino le frasi del campione olimpico. Poi, visto che noi gli guardavamo i piedi, senza la minima abrasione o ferita, niente di niente, come se si fosse alzato dalla poltrona, invece di aver corso per 42 chilometri e 195 metri, capì la nostra curiosità: «Provate a pungere i miei calli con uno spillo, non sento nessun dolore. Uso le scarpette soltanto in allenamento; in gara ho troppa paura di farmi male».

A Roma Bikila restò qualche giorno, in tempo per comprare regali per la moglie e il figlio, che stava per nascere. «Gli metterò il nome di Gheremiò – disse – che in amarico significa il miracoloso e scriverò anche un libro su come si vince una maratona che titolerò pure Gheremiò.»

Quando tornò in Patria, ebbe onori impensabili: il Negus lo promosse da soldato semplice a tenente della Guardia Imperiale e lui diventò un eroe nazionale.”

Una storica doppietta

“In attesa dei Giochi di Tokyo 1964, Bikila vinse le maratone di Atene, Osaka e Kosice nel 1961; nel 1963 fu solo quinto a Boston in una giornata di neve e freddo polare. Ma a Tokyo, con un’umidità asfissiante, alla quattordicesima maratona della sua carriera, sbaragliò tutti gli avversari, con la stessa grinta di Roma, staccando di oltre quattro minuti l’inglese Heatley e il giapponese Tsuburaya. Andò a vincere in 2:12’11”2, tre minuti in meno che a Roma, stabilendo un nuovo record olimpico, davvero fantastico.

Ma fu, soprattutto, il primo maratoneta a vincere di seguito due maratone olimpiche. Sarebbero poi dovuti passare 16 anni prima che un altro atleta eguagliasse l’impresa. Fu il tedesco dell’Est Waldemar Cierpinski, che fece l’enplein nel 1976-80. 

Stupefacente, allora, per un atleta di 32 anni, con una ferita da intervento chirurgico ancora fresca: sei settimane prima della corsa olimpica era stato operato di appendicectomia. A Tokyo Bikila aveva vinto correndo non più a piedi nudi ma calzando un paio di scarpette bianche all’ultima moda. A fine gara si esibì in un piccolo saggio ginnico della durata di tre minuti.”

L’incidente automobilistico

“Ai successivi Giochi olimpici del 1968, ai 2.240 m di Città del Messico, il mondo aspettava con impazienza il tris, invece Bikila fu costretto al ritiro, per una distorsione al ginocchio sinistro e dovette assistere al trionfo del suo connazionale Mamo Wolde.

Puntò allora su Monaco di Baviera 1972, dove non arrivò mai da maratoneta.

La notte del 24 marzo ’69, mentre percorreva la statale diretto ad Addis Abeba, perse il controllo dell’auto e precipitò in una scarpata, subendo la frattura del collo. Sulla dinamica dell’incidente fu steso un pietoso velo, perché Bikila ai primi soccorritori sembrò tutt’altro che sobrio. La degenza all’Ospedale per paraplegici di Stoke Mandeville nei pressi di Londra, dove fu trasportato immediatamente, fu lunga. Venne fotografato completamente paralizzato dalla vita in giù, mentre si esercitava a spostarsi su una sedia a rotelle. Il primo sorriso glielo strappò l’imperatore quando lo andò a trovare, nominandolo capitano della Guardia Imperiale. Poiché lo sport era stato ed era il suo mondo, anche da paraplegico cercò di affrontare le gare. Non più come corridore, bensì nel tiro con l’arco. Poi il silenzio.

Era riapparso da ospite d’onore a Monaco ’72, dentro l’Olympiastadion, immortalato in una straziante immagine accanto a Zatopek. Poi di nuovo il silenzio. Ma il 25 ottobre ’73 un breve comunicato dell’Ospedale di Addis Abeba annunciava la sua morte senza precisare che la causa era un’emorragia cerebrale. A 41 anni, lasciava la moglie e 4 figli. 

Gli vennero tributate esequie solenni e il corpo venne inumato al cimitero di Adis Abeba, accanto alle più alte personalità della nazione etiope. Le scritte sulla tomba di Bikila sono in tre lingue: amarico, italiano e giapponese. Un modo per ricordare a tutti la sua terra e i suoi due ori olimpici.” 

Nota: Questo testo è estratto dal servizio “Mi disse: «Pungi pure i miei piedi»”, di Carlo Monti, pubblicato su Correre n. 296, giugno 2009, alle pagine 106-108.

Leggi anche: Accadde… domani: le corse che furono, in questi stessi giorni

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